L’accoglienza e il lavoro Oltre i pregiudizi capire cosa non funziona
Parlare di immigrazione non è soltanto faticoso, di questi tempi. Si ha l’impressione che sia inutile. Milioni di italiani bloccati dentro la propria narrazione. Quella governativa, al momento, va per la maggiore: l’italia è invasa, allarme rosso! C’è un problema: non è vero.
Maurizio Ferrera, nella storia di copertina, ha cercato di portare un po’ di buon senso in una materia che ne sente la mancanza: «Oggi ci sono più di 5 milioni di persone non nate in Italia (fra cui un milione di minori), 8,3% della popolazione residente. Vivono a nostre spese? No. Se sono adulti, lavorano. Due milioni e mezzo hanno un regolare contratto. Se consideriamo anche i lavori non dichiarati (ad esempio, molte badanti che pure hanno la residenza), possiamo dire che la sotto-popolazione immigrata ha un tasso di occupazione più alto della media».
Qualcuno sta pensando: il problema sono i richiedenti asilo! Cito Claudio Baccianti su lavoce.info: la Germania, alla fine del 2017, aveva in carico 1 milione e 413 mila rifugiati, la Francia 402 mila, l’italia 354 mila. Anche il rapporto tra ricchezza (Pil) e numero di rifugiati rivela che Grecia e Malta, esposte come noi ai flussi migratori da sud, sopportano un carico superiore nell’accoglienza. Immigrati in percentuale sulla popolazione? Solo Portogallo e Finlandia ne ospitano meno di noi.
Eppure l’allarme esiste. E Matteo Salvini, per quanto strilli, non l’ha creato da solo. Cosa temono gli italiani? Una cosa già accaduta e un’altra che potrebbe accadere.
Cominciamo da quest’ultima. Quello che potrebbe accadere è un grande, incontrollabile esodo africano. Se la storia si può ritoccare — la politica non fa altro — la geografia è difficile da falsificare. Un continente che noi colpevolmente ignoriamo inizia a pochi chilometri dalle coste siciliane. Chi dice «Non possiamo accoglierli tutti!», afferma una cosa lapalissiana. Tutti, no. Ma qualcuno sì. Potremmo e dovremmo farlo.
Cosa accade invece? Il processo di accoglienza è lungo, complesso, irritante. I tre governi del Partito Democratico (Letta, Renzi, Gentiloni) non hanno avuto la forza di cambiarlo, e hanno pagato un prezzo altissimo, il 4 marzo. È grottesco attendere un anno e mezzo per stabilire se un migrante ha diritto all’asilo; è folle lasciarlo nel limbo per tutto questo periodo, affidandolo spesso a cooperative nate solo per far soldi, che lo abbandonano per la strada. Perché non chiedere ai nuovi arrivati di rendersi utili? Molti lo farebbero volentieri.
È il caso di Sheikh Faal, il ragazzo sulla nostra copertina. Ci era già stato il 1° giugno 2017, quell’immagine è stata premiata Copertina dell’anno (premio Ferrari). Stefania Chiale, con il fotografo Roberto Salomone, è andata da lui a Napoli. Sheikh ha 22 anni, viene dal Gambia. È arrivato nel 2014, quasi per caso, dopo un calvario nelle prigioni libiche; lo status di rifugiato gli è stato riconosciuto due anni e quattro mesi dopo. Ma non trova alcuna occupazione. Dice di essere grato all’italia e a Napoli. Ma aggiunge: «Se mi accogli, dovresti darmi la possibilità di formarmi o di lavorare. Un uomo ha bisogno di mangiare. Se non lavora, farà qualsiasi cosa pur di riuscirci».
Non è una minaccia, è una constatazione. Stiamo trasformando un’opportunità in un problema, e quel problema rischia di diventare una tragedia. Svegliamoci: siamo ancora in tempo.