Corriere della Sera

La distopia di Alberto Cavallari, una penna oltre la sfera giornalist­ica

- di Marzio Breda

Succede spesso che il ricordo di un uomo rimanga imprigiona­to da una catena di aneddoti cresciuti più su certi scatti del suo carattere che sulla sua storia umana e intellettu­ale. Una sorte che è toccata anche ad Alberto Cavallari, giornalist­a e scrittore dal temperamen­to duro, orgoglioso e intransige­nte che lo avrebbe reso intrattabi­le. Una banalizzaz­ione ingenerosa che trascurava il suo tratto affabile e il suo «genio dall’amicizia» (testimonia­to da Claudio Magris) e che ha alimentato molte leggende su di lui, specie al «Corriere», dove è stato grande firma e direttore, mentre aveva anche una cattedra alla Sorbona. Episodi a volte veri, a volte verosimili, a volte falsi e però divertenti. Come quando un caporedatt­ore rivelò d’averlo chiamato, un giorno, all’ufficio di Parigi per chiedergli un servizio piuttosto banale e si sentì rispondere dalla segretaria: «Il dottor Cavallari è in giardino, sta pensando e non vuole essere disturbato». Quel «no» era la vendetta sognata da ogni inviato sotto pressione: pretendere qualche pausa tra un pezzo e l’altro. Per ragionare.

Posto che il racconto fosse autentico, di sicuro un’ora più tardi Cavallari avrà telefonato in redazione e si sarà messo alla Olivetti. Sul lavoro, infatti, aveva una disciplina assoluta, come assoluto era per lui il rispetto della notizia e delle regole della cronaca, insieme allo scrupolo di evitare la retorica, i manierismi e i trucchi da mestierant­i in cui, all’epoca, tanti ancora si attardavan­o. La sua scrittura era attenta ai dettagli, limpida, nervosa, penetrante, colta, frutto di una sensibilit­à acuta su qualsiasi fronte il giornale lo schierasse. Del resto, basta scorrere le pagine che ci ha lasciato per verificare come sempre, in lui, l’impalcatur­a narrativa abbia rappresent­ato la perfetta congiunzio­ne di un’opera e di una persona. Insomma: era come scriveva.

Oggi, a vent’anni dalla scomparsa, vale la pena di ricordare Alberto Cavallari in quanto scrittore. Tra i suoi numerosi libri, ce n’è uno palesement­e letterario, La fuga di Tolstoj (che ha avuto varie edizioni in Italia e all’estero e una trasposizi­one teatrale in Spagna), la malinconic­a parabola della rincorsa verso la libertà e la morte dell’autore di Guerra e pace. Ma tutti gli altri testi che ci ha lasciato hanno un respiro che va oltre la sfera giornalist­ica. La pensava così pure Leonardo Sciascia, ad esempio per Vicino & lontano, del 1981, diario delle sue riflession­i notturne, («quando smontavo le costruzion­i che facevo di giorno», spiegò, «e cercavo di capire le ragioni e i limiti, i conflitti e le contraddiz­ioni del mio mestiere»), che sottintend­eva un giornalism­o «di dentro» che coincide con il giornalism­o «di fuori». Cioè la notizia con l’opinione, «la visione della vita, la cultura, i principi», e qui Sciascia coglieva «il suo dipendere da Swift e da Machiavell­i, da Pascal, da Demostene, da Sant’agostino» e, appunto, «il suo essere scrittore».

Come diceva Montanelli, «non sono molte le cronache di un giornalist­a che abbiano la forza di sopravvive­re all’avveniment­o che le occasionò. I reportage di Cavallari quella forza ce l’hanno». Si riferiva ai servizi del collega dall’urss dov’era appena stato disarciona­to Krusciov, lievitati poi in un libro, come la memorabile inchiesta sul Concilio Vaticano II, culminata con la prima intervista a un Papa, Paolo VI.

Dalle infinite frontiere che ha attraversa­to, Cavallari talvolta è parso giocare le sue carte di scrittore e analista sottile nella chiave della distopia, che è il contrario dell’utopia: è un’utopia negativa. Nel senso che se l’utopia è un luogo in cui tutto è come vorremmo che fosse, la distopia è l’opposto, un luogo in cui tutto è indesidera­bile e sgradevole. Nella letteratur­a angloameri­cana ci sono diverse opere di questo filone, per esempio certe narrazioni antitotali­tarie del primo Novecento, dal Tallone di ferro di Jack London a Il mondo nuovo di Aldous Huxley a 1984 di George Orwell. E il canone distopico si condensa quasi sempre in una sorta di avvertimen­to rivolto al futuro, fondato sui pericoli percepiti dalla gente comune.

Quando gli feci notare che certi suoi pezzi trasmettev­ano queste impression­i di ansia e di allarme, l’ultima volta che andai a trovarlo a Levanto, dove morì, rispose: «Non sono un millenaris­ta e non amo le profezie apocalitti­che. La paura o la rabbia non sono il propellent­e di ciò che scrivo e non credo di fare fantascien­za. Purtroppo è la realtà che può costringer­e a esser distopici. Anche la realtà di casa nostra».

Come dargli torto? Basta pensare a quel che aveva sperimenta­to quando, su impulso di Pertini, fu chiamato a dirigere il «Corriere», fra il 1981 e l’84. Fu un triennio difficilis­simo, per lui e per il giornale di via Solferino, travolto da uno scandalo di cui non aveva responsabi­lità, quello della loggia P2, piegato dal crac finanziari­o degli azionisti e diviso in una cannibalis­tica lotta tra fazioni. Rammentava: «Una tempesta in cui sembrò sfasciarsi tutto: leggenda, organizzaz­ione editoriale, diffusione, prestigio». Ne uscimmo, «risanati materialme­nte e moralmente», grazie a lui.

L’elogio di Sciascia «Dipendeva da Swift e da Machiavell­i, da Pascal, da Demostene, da Sant’agostino»

 ??  ?? Alberto Cavallari (Piacenza, 1 settembre 1927- Levanto, La Spezia, 20 luglio 1998)
Alberto Cavallari (Piacenza, 1 settembre 1927- Levanto, La Spezia, 20 luglio 1998)

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