Corriere della Sera

A casa i ragazzi della grotta «Si scavava con le pietre»

I Cinghialot­ti escono dall’ospedale e si raccontano in diretta tv. «Ora un periodo da monaci»

- Di Francesco Giamberton­e

Sono ritornati alla loro vita di tutti i giorni i dodici ragazzi thailandes­i e il loro allenatore rimasti intrappola­ti in una grotta. «Ci eravamo messi a scavare con le pietre. Poi abbiamo capito che non serviva a nulla».

Ekkapol Adul Sam-on

N ella sala allestita come un campo da calcio, tappeto verde e due piccole porte, siedono un centinaio di giornalist­i. Sembra la presentazi­one di Cristiano Ronaldo e invece i calciatori sono 12, piccoli e thailandes­i. Insieme all’allenatore sono pronti al ritorno in società con un giorno di anticipo dall’ospedale di Chiang Rai perché «hanno risposto bene alle cure». Dopo 17 giorni intrappola­ti nella grotta di Tham Luang, di cui 9 senza cibo, c’è un’ultima prova da superare prima di rientrare a casa per la prima volta dal 23 giugno: le domande dei cronisti che affollano — insieme ai parenti dei piccoli e al personale che li ha curati — la mega sala, in diretta tv mondiale. Per il bene dei ragazzi ogni richiesta è stata vagliata in anticipo dagli psicologi, o si rischia di turbarne la salute mentale.

Le 13 piccole star arrivano dall’ospedale con una nuova divisa: sulle spalle nomi e numeri di maglia, sul petto un cinghiale rosso fiammante, ai piedi un pallone ciascuno con cui riprendere confidenza. Accolti nel campetto come i campioni d’asia, sorridono a tutti, s’inchinano alle foto e ai video, abbraccian­o i compagni di squadra rimasti fuori da quell’incubo. Poi salgono sul palco, sotto una grande scritta: «Il ritorno a casa dei Cinghiali». E per la prima volta sono loro a raccontare la storia. Dall’inizio.

I genitori non sapevano

La discesa nell’inferno di pietra comincia il 23 giugno, nel giorno del 16esimo compleanno di Peerapat detto Night . «Per i ragazzi era la prima volta nella cava, non siamo andati lì per festeggiar­e ma per visitarla come mi avevano chiesto — racconta l’allenatore Ekkapol Chanthawon­g —, volevamo stare dentro un’oretta: la famiglia di Night lo aspettava a casa alle 17 per la festa». La gita alla cava era programmat­a, ma nessun genitore era stato informato. I «cinghiali» provano a uscire ma trovano delle enormi pozze e sentono l’acqua arrivare dall’entrata. «Alcuni mi chiedevano: “Ci siamo persi?”, ma la direzione era giusta. Così siamo andati più in fondo, cercando un punto asciutto. Abbiamo trovato una piccola distesa di sabbia vicino a una fonte d’acqua. Prima di addormenta­rci abbiamo pregato Buddha: pensavamo che l’acqua il giorno dopo sarebbe scesa. Non avevamo paura in quel momento».

Entrati di sabato pomeriggio con la pancia piena, avevano una torcia («usata con parsimonia») ma niente da mangiare. «Bevevamo le gocce che scendevano dalle stalattiti», dice al microfono il giovane Tee. Due giorni sopportabi­li, poi i primi crolli. Il piccolo Titan, 11 anni, ammette: «Non avevo forze e sono svenuto. Ho cercato di non pensare al cibo o avrei avuto troppa fame». Ai compagni sfugge una risata, ora che sono al sicuro.

Ma i soccorsi non arrivavano. «Non volevamo stare lì ad aspettare— spiega coach Ake — e voglio precisare che i ragazzi sanno tutti nuotare, anche se non benissimo. Così abbiamo fatto a turno per scavare le pareti della grotta con delle pietre. Una buca di 3-4 metri, non serviva a niente». Sempre più deboli, si sono fermati. Qualcuno piangeva. «Ma io dicevo: “Continua a combattere! Non disperarti!”», racconta un altro. «Fino al miracolo».

«È stata una magia»

Il 2 luglio due sub britannici sono riemersi nel punto dove si era spinta la squadra, a 4 chilometri dall’ingresso. «È successo di sera, abbiamo sentito delle voci. È stato un momento magico». Adul, 14 anni, parla inglese: è stato lui ad avvicinars­i ai sommozzato­ri. Rivive quei momenti e si emoziona, poi scherza: «Parlavano veloce, il coach mi diceva di tradurre le loro domande: gli ho detto di calmarsi o non avrei capito niente!». Ha capito quanto serviva: la domanda «quanti siete?». E aveva la risposta: «Tredici, stiamo tutti bene».

Raggiunti dai Thai Navy Seal hanno passato i giorni dopo «giocando a dama». Non sapevano che uno di loro, Saman Kunan, era morto per portare dentro le bombole d’ossigeno: «Ci siamo sentiti in colpa per aver reso triste la sua famiglia». Ora in suo onore, assicura Ake, «i ragazzi faranno un periodo da monaci». Gli psichiatri raccomanda­no almeno un mese lontano dai giornalist­i. Dopo tutto quel buio, le luci dei riflettori rischiano di fare male.

d Volevamo stare lì dentro un’oretta, ma siamo rimasti bloccati. All’inizio non avevamo paura: siamo andati a dormire convinti che l’acqua sarebbe scesa

L’allenatore

d Quando abbiamo sentito le voci dei sub britannici è stato un momento magico, un miracolo. Il coach voleva che traducessi, gli ho detto di calmarsi o non avrei capito niente

Il 14enne che parla inglese

La conferenza Almeno 100 giornalist­i accreditat­i all’evento e un campetto da calcio allestito per i ragazzi Tutte le domande filtrate dagli psicologi «Meglio non stressarli»

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La prima uscita pubblica dei 12 ragazzi thailandes­i e del loro allenatore rimasti intrappola­ti per giorni in una grotta
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(Ap/vincent Thian) Il ricordo Durante la conferenza stampa i ragazzi hanno ricordato Saman Gunan, mostrando un ritratto del sommozzato­re morto durante le operazioni di recupero
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A casa La mamma bacia Duangpetch, 13 anni, al rientro (Ap)

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