Di nonno in nipote, la causa infinita
Da 33 anni per la garza lasciata nell’addome. Ora avvocato è il figlio di quel cesareo
Una causa lunga tre generazioni. Dopo un cesareo, all’ospedale di Bergamo, a una donna i medici lasciano una garza nell’addome. Il padre della donna, un avvocato, avvia una causa per risarcimento danni. Il processo tra ricorsi e controricorsi viene poi condotto dalla stessa donna, anche lei avvocato. Oggi è suo figlio, nato dopo il cesareo, a proseguire la partita giudiziaria.
BERGAMO Lo studio dell’avvocato Nunzia Coppola Lodi è un angolo di silenzio a pochi passi dal teatro Donizetti. All’ingresso, su un tavolino tondo, è adagiata la targa per i 50 anni di professione del padre Francesco, avvocato anche lui, scomparso nel 2005.
«Buongiorno», da una stanza si fa avanti il figlio Andrea Lodi. Ha scelto la strada del nonno e della mamma. Il sedici luglio ha compiuto 33 anni. È del 1985. La data non è solo una ricorrenza, la sua nascita segnò l’inizio di una causa per risarcimento danni che non è ancora terminata.
«Sì, è lui il figlio del cesareo», dice l’avvocatessa. Oggi sono insieme in studio. Nelle foto di allora c’è lei che lo tiene in braccio. Per stringerselo, ricorda, «mi strappai i punti. Non avrei potuto, ma non riuscivo a non prendere in braccio mio figlio». I punti non erano quelli del parto cesareo. Perché dopo 10 mesi di dolori, ittero, crampi, la neo mamma era tornata in ospedale: ci rimase un mese con la paura di avere un tumore, invece in pancia le era rimasta una garza.
Allora c’erano gli Ospedali Riuniti di Bergamo e sul risarcimento danni si ragionava in lire. L’ospedale riconobbe l’errore e nel 1998 l’assicurazione pagò, a 13 anni dai fatti. Tradotto in euro, l’avvocatessa ne ha ricevuti 110 mila. La causa, però, è proseguita a colpi di ricorsi. Nel frattempo, è stato costruito un ospedale nuovo, che ha cambiato nome, e in quello di allora oggi c’è la Guardia di Finanza.
Lei parla di «tenacia»: ha chiesto che le somme venissero riadeguate al tempo trascorso, indennizzi per i mesi trascorsi senza poter lavorare all’epoca dei fatti, e i costi di tutti i gradi di giudizio. Che poi, in trent’anni, sono una sentenza del tribunale civile di Bergamo più tre passaggi in Appello e tre in Cassazione, che di recente ha rinviato di nuovo in secondo grado per le spese legali.
All’inizio la difese il padre. Del resto in famiglia sono tutti giuristi, la madre fu per dieci anni l’unico notaio donna in città. Nunzia, procuratore legale dal 1983, iniziò nel 1988 a poter difendere in cause da oltre 50.000 lire. Con il trascorrere del tempo si è autoassistita, nella sua causa, e ora la aiuta il figlio. «Pensi che Andrea, facendo i conteggi, aveva scoperto che ci erano stati liquidati 20.000 euro in più. Avevamo proposto che compensassero a forfait le spese di giudizio che riteniamo ci spettino, ma dopo che l’ospedale ha detto no abbiamo deciso di procedere, ricorrendo in Cassazione per fare annullare la sentenza errata sul punto».
Che la ragione stia dall’una o dall’altra parte di questa vicenda colpiscono i tempi. Basta guardare le fotografie. Allora l’avvocatessa aveva 31 anni, oggi ne ha 64: «Sono vecchia», scherza. Ci sono tre generazioni in mezzo. «Ho pensato di mollare tutto, ma sono andata avanti anche per le persone che, a differenza mia, non sono avvocati e probabilmente avrebbero accettato l’offerta iniziale. Non è giusto. Se si sbaglia, si deve
Sono andata avanti anche per le persone che, a differenza mia, non sono avvocati e avrebbero accettato l’offerta iniziale. Non è giusto. Se si sbaglia, si deve chiedere scusa e andare incontro alla persona che ha subìto l’errore
d Ormai mi perdo pure io tra tante cifre e sentenze, per fortuna c’è anche Andrea che mi aiuta
Avevamo proposto che compensassero a forfait le spese di giudizio che riteniamo ci spettino, ma dopo che l’ospedale ha detto no abbiamo deciso di ricorrere in Cassazione per fare annullare la sentenza errata sul punto
chiedere scusa e andare incontro alla persona che ha subìto l’errore».
L’ospedale, attraverso l’assicurazione, offrì 40 milioni di lire, nel 1989. L’avvocatessa rifiutò. Nel 1993 il tribunale di Bergamo stabilì che il danno (biologico, patrimoniale e morale) era di 67.672.000 di lire. Difficile che le cause si fermino al primo grado. Su ricorso di entrambe le parti, nel ‘98 i giudici d’appello di Brescia decisero al rialzo: 98.241.910 di lire. L’assicurazione pagò. Ma in Cassazione, nel 2001, la sentenza fu annullata: il presidente non l’aveva firmata. Se ne occupò un’altra sezione d’appello. Nel 2003 la moneta era cambiata: il danno, decisero i nuovi giudici, ammontava a 33.042 euro «oltre a rivalutazione e interessi», voci che hanno fatto salire la somma a 110.000 euro.
Ma l’avvocato — forte di una parziale decisione a suo favore della Cassazione, che nel 2008 rinviò di nuovo in Appello — chiese una rivalutazione di quanto patito: 360 giorni di invalidità temporanea, quattro mesi di studio chiuso, gli esami medici, la paura di avere un brutto male, una lunga cicatrice e quel «distacco brutale dal figlio a 10 mesi dalla nascita per un ricovero urgente». Nel 2014 i giudici hanno riconosciuto due stipendi e 8.267 euro di danno morale, in più. Ora c’è il capitolo spese legali. Si torna in Appello. «Mi perdo pure io tra cifre e sentenze. Per fortuna c’è Andrea che mi aiuta».