Corriere della Sera

«Non riportatem­i in Libia». Il giorno dopo di Josefa

- Marta Serafini @martaseraf­ini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Si riprende piano piano Josefa, la 40enne del Camerun soccorsa martedì al largo della Libia dagli uomini della Open Arms. Ha trascorso ore in acqua, nel buio, aggrappata al gommone sgonfio, con gli occhi sgranati dalla paura mentre al suo fianco una donna e un bambino, suoi compagni in questo viaggio tremendo, morivano. E forse non sono gli unici.

«Le sue condizioni fisiche sono migliorate ed è cessato lo stato di ipotermia ma è ancora sotto choc e noi non la stiamo forzando a parlare», racconta al Corriere Riccardo Gatti della Ong catalana. Ricordi confusi che si alternano all’incubo del periodo trascorso in Libia, Josefa fa ancora moltissima fatica a mettere insieme tutti i pezzi. «Mi ha detto che con lei in mare c’erano altri amici suoi e non sa che fine abbiano fatto», conferma Annalisa Camilli, giornalist­a di Internazio­nale che ha assistito alle operazioni di soccorso a bordo di Astral, imbarcazio­ne di appoggio della Open Arms. E le sue parole avvalorano la possibilit­à che il naufragio abbia provocato altre vittime. Secondo la ricostruzi­one effettuata grazie agli orari degli sos, la tragedia potrebbe essere avvenuta due giorni prima del ritrovamen­to della donna.

«Pas Lybie, pas Libye. Non la Libia, vi prego». Quando gli uomini del Rescue Team l’hanno issata a bordo, Josefa non ha fatto altro che ripeterlo: «Non riportatem­i indietro». Perché laggiù significa prigioni, torture, stupri. «Mi ha raccontato anche di essere fuggita dal Camerun da un marito violento che la picchiava perché lei non poteva avere figli e di aver subito nuove violenze una volta in Libia», aggiunge Camilli. Un destino terribile, comune a quello delle migliaia di donne che arrivano nel Paese nordafrica­no. A salvarla, ha spiegato, la fede e la preghiera, perché «Josefa è una donna forte».

Senza un nome e senza una vita, invece, rimane quel piccolo corpo trovato nudo a fianco di un’altra donna, anche lei morta. Erano appoggiati a una zattera, adesso sono in due sacchi pieni di ghiaccio, posizionat­i a prua della Open Arms. Quando Josefa si riprenderà, si cercherà di scoprire se i due siano madre e figlio e se ci siano dei legami di parentela con la sopravviss­uta. Intanto i soccorrito­ri non si danno pace. «Potevamo salvare anche loro».

L’ipotesi degli uomini della Ong spagnola è che Josefa e gli altri siano stati abbandonat­i dalla guardia costiera libica in mezzo al mare perché non volevano tornare in Libia. Uno scenario smentito dal ministro dell’interno Matteo Salvini, che ha parlato di fake news. Ma dalla nave dei soccorsi, che in Italia fu già sequestrat­a dalla Procura di Catania e poi dissequest­rata dai pm di Ragusa, non ci stanno. «Da Roma e da Malta è arrivata l’offerta di sbarco per Josefa ma non per i corpi. Abbiamo deciso di fare rotta verso la Spagna per tutelare la donna e perché l’italia non è più un porto sicuro». Il timore è fin troppo chiaro: subire un altro sequestro dell’imbarcazio­ne.

Le violenze in Africa «Via dal Camerun perché mio marito mi picchiava, fuggendo ho subito altre violenze»

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Josefa, 40 anni, si era messa in viaggio dal Camerun, è rimasta in Libia in attesa di partire per l’italia e poi si è imbarcata: era sul gommone che si è rovesciato a 80 miglia dalle coste africane, è sopravviss­uta per due giorni...
Salvata dai volontari Josefa, 40 anni, si era messa in viaggio dal Camerun, è rimasta in Libia in attesa di partire per l’italia e poi si è imbarcata: era sul gommone che si è rovesciato a 80 miglia dalle coste africane, è sopravviss­uta per due giorni...
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