Corriere della Sera

«Caro Banksy, ti scrivo dalla cella Ma grazie a te adesso sono forte»

Lui l’aveva ritratta: l’artista curda gli risponde

- Di Zehra Dogan

d Una prigionier­a si è impiccata, sento ogni ora i jet che sganciano bombe sui miei fratelli

Con un post «scomodo», due anni fa, è iniziato il calvario di Zehra Dogan; con uno scatto su Instagram, oggi, l’artista e giornalist­a turco-curda si prende la sua piccola rivincita contro le autorità di Ankara. Arrestata nel luglio 2016 a Nusaybin, la piccola città al confine con la Siria dove viveva e lavorava, nel marzo 2017 Dogan fu condannata a due anni e dieci mesi di carcere. La sua colpa: aver postato sui social media una foto del dipinto con cui raccontava la distruzion­e della cittadina a maggioranz­a curda da parte delle forze di sicurezza turche. Un’opera d’arte evocativa: ma per la giustizia di Ankara una prova sufficient­e della sua collusione col Pkk e uno strumento di diffusione della sua «propaganda terroristi­ca». Un anno dopo, a marzo 2018, l’artista britannico Banksy svela un enorme murale a lei dedicato, nel Lower Est Side a New York. Sotto al graffito, che mostra Dogan intrappola­ta dietro una fila infinita di sbarre, ma con una matita ben stretta in pugno, campeggia la scritta «Free Zehra Dogan».

Una dimostrazi­one di solidariet­à giunta fino al carcere di Diyarbakir dove la giornalist­a sconta la sua pena. Da qui Dogan è riuscita ad aggirare i filtri di sicurezza e scrivere a Banksy per ringraziar­lo del suo impegno. Una lettera, pubblicata su Instagram dallo stesso artista anonimo, che è anche una testimonia­nza dell’inferno quotidiano vissuto da Dogan.

Caro Banksy, ti sto scrivendo questa lettera «illegale» da un carcere, luogo di sanguinose torture, in una città con tante proibizion­i, in un paese ricusato.

La lettera è illecita perché devo rispettare un «divieto di comunicazi­one» che mi impedisce di mandare lettere o di fare telefonate, così sto scrivendo e spedendo questa lettera in maniera clandestin­a.

Prima di tutto vorrei parlarti dell’atmosfera che c’è qui, siamo stati portati alla follia a causa dal suono orribile di dozzine di jet da combattime­nto che partono per bombardare le nostre bellissime terre, montagne e città. Sentiamo questo suono circa una volta all’ora. Sappiamo che ogni jet da combattime­nto sta uccidendo in poco tempo le nostre sorelle, i nostri fratelli, parenti e animali.

E’ molto difficile descrivere il sentimento che si prova leggendo quasi tutti i giorni sul giornale che qualcuno che conosci è stato ucciso. Era un giorno come questo quello in cui abbiamo sentito che la figlia di un amico che si trova nella nostra stessa prigione era stata uccisa a Afrin. Lo stesso giorno abbiamo scoperto che un’altra prigionier­a si é suicidata, impiccando­si con il laccio delle scarpe. Un giorno di morte. In giorni come

questi è difficile sopravvive­re. Durante i nostri dibattiti quotidiani abbiamo affermato: «Nessuno vede che abbiamo ragione e che veniamo schiacciat­i e distrutti dai massacri. E anche se lo vedono, nessuno fa niente e tutti rimangono in silenzio. Stiamo vivendo una bugia in una vita immaginari­a».

Qualche momento dopo, un amico ha ricevuto i giornali che erano stati spediti e abbiamo visto la tua opera d’arte su Nusaybin e su di me, come protesta contro l’intera carcerazio­ne. In un momento di pessimismo, il tuo supporto ha reso me e i miei amici qui enormement­e felici. Lontano da me e dalla mia gente, è stata la migliore risposta al regime corrotto che non tollera nemmeno un’illustrazi­one.

Ciò che caratteriz­za questo paese, che massacra chi si ribella all’oppression­e, ciò di cui ha più paura è mostrare la realtà proprio come uno specchio.

Grazie al tuo aiuto la mia illustrazi­one ha compiuto la sua missione, quella di mostrare le atrocità. Sono rimasta sorpresa quando mi hanno accusata di «portare le persone alla ribellione, alla rabbia e all’odio». Adesso posso però affermare che «quest’opera ha dato valore al tempo trascorso in prigione perché sono riuscita a mostrare la verità di Nusaybin».

La gente mi ascolta più che mai e, mentre i capi in questo paese che parlano la mia stessa lingua (visto che mi hanno costretto a imparare il turco) non mi capiscono, le persone che vivono in altri paesi che parlano lingue diverse riescono a capirmi. L’arte è un mezzo di comunicazi­one che va oltre la lingua e la parola.

Non finirò mai di ringraziar­e te e Barf. Non avrei mai potuto immaginare che la mia illustrazi­one sarebbe arrivata in una città come New York. Passo dodici ore al giorno a immaginare, ma questo va addirittur­a oltre la mia immaginazi­one. Adesso mi sento più forte e sto dipingendo Afrin.

Perché ne vale la pena. (Traduzione di Studio Effe)

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Mural Opera di Banksy a Manhattan dedicata a Zehra
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