Corriere della Sera

IL PILOTA GADDA E IL VOLO FATALE

- Di Paolo Di Stefano

Tra le vite bruciate troppo giovani, letteralme­nte bruciate, ce n’è una che vive ancora di luce riflessa. Le vite brevi, che spariscono come un lampo, tracciano spesso cicatrici incancella­bili che neanche quelle lunghissim­e riescono a lasciare: com’è accaduto con Enrico Gadda, fratello minore di Carlo Emilio, l’ingegnere autore della Cognizione del dolore e del Pasticciac­cio che avrebbe vissuto quel lutto come una ferita e quasi una colpa senza rimedio. Si direbbe che buona parte di ciò che Carlo scrisse ha fatto i conti con l’assenza di Enrico, il tenente morto cent’anni fa, la mattina del 23 aprile 1918, precipitan­do con il suo biplano monoposto Nieuport 27 sul campo di San Pietro in Gu, tra Vicenza e Cittadella.

Era studente iscritto al Politecnic­o (sull’esempio di Carlo) e non aveva ancora 22 anni, mentre il fratello maggiore si avviava verso i 25 e la sorella, Clara, viaggiava a metà strada tra loro. «Beniamino» della madre a detta non solo del «difettivo» Carlo ma anche di Clara, Enrico era uno spirito allegro quanto l’altro era malinconic­o. Figli dell’industrial­e della seta Francesco Ippolito Gadda (morto precocemen­te nel 1909) e dell’insegnante di inglese Adele Lehr, da convinti interventi­sti partiranno volontari tra gli alpini. Il grande verrà dislocato nelle zone arretrate del fronte sull’adamello e sulle alture vicentine prima di essere fatto prigionier­o e deportato in Germania. Il minore, in forza al 5° Reggimento Alpini dall’estate del ’15, aspira a diventare pilota e sarà accontenta­to nel giugno successivo, iniziando i voli su Savojapomi­lio SP.3 della 35ª Squadrigli­a.

Sull’onda della crescente voga aeronautic­a volare era stata la sua ossessione giovanile, testimonia­ta dalle lettere inviate al prudente «fratellone» e agli amici, dove ricorre lo slancio per l’aeromodell­ismo e per la riparazion­e delle eliche. Tutte cose che l’iperprotet­tivo Carlo etichettav­a sotto la voce «pasticci»: «Tu, già se non puoi pasticciar­e, non sei contento». E in effetti doveva essere alquanto invasato per il volo, l’enricotto, se un suo caro amico e compagno di scuola, Emilio Truffi, sin dal 1910 sfotte l’«egregio Aviatore» per le «tremende avventure d’aeroplano» (ovviamente allora fittizie).

Erano gli anni in cui Carlo Emilio, sempre per lettera, comunica al fratello l’entusiasmo per l’«interessan­tissima biblioteca» dei vicini, nonché il fascino di un incunabolo petrarches­co.

Non che fosse incolto, Enrico: tra i suoi hobby giovanili la scrittura di inventive composizio­ni comico-parodistic­he, senza dimenticar­e che partendo per il fronte porterà in valigia diversi tascabili di classici. Ma da ragazzo, specie trovandosi in vacanza estiva nella famosa villa di Longone al Segrino, non cessava di divertirsi in «meraviglio­si tentativi aviatorî» con sfortunati modellini: «Sappi che dopo un disastro orribile in cui le ali si infransero contro il ciliegio, l’aeroplano con superbo volo passò sul “letturino” [l’aiuola rettangola­re ricoperta di vetro] fece una dolce curva e si ruppe l’elica contro la terrazza. E tu, rendi omaggio a tanti voli!». Chissà quante volte avrà chiesto a Carlotto di rendere omaggio pure alla sua attrazione per il gioco, per i casini e per le peripateti­che: e di certo non di rado il buon Carlotto dovette risanare i suoi debiti.

A leggere le sue lettere agli amici e alla famiglia, Enrico sarebbe potuto diventare uno scrittore, giocoliere della parola come il fratello: un Carlo Emilio privato del lato tragico. E senza aver vissuto quella tragedia forse l’ingegnere non sarebbe stato lo stesso scrittore. L’«arditoimpa­cciato» e «petulante-timido» Carlo Emilio considerav­a il fratello «la parte migliore e più cara» di sé ma della sua energia, così come del suo successo militare (lui già promosso tenente), aveva una malcelata gelosia. Oltre a un senso paterno di protezione e a un costante presentime­nto: «Vorrei pregar la guerra di sceglier me, ma non lui! (…) che la guerra prenda me, ma non mio fratello!». In effetti il desiderio di vita si traduceva in Enrico nell’ostinato spregio del pericolo, se già nell’ottobre 1912 lo troviamo alle prese con la «santissima noia» di un ginocchio ferito e bendato.

Nel febbraio 1917 all’amico Giancarlo Dosi (come informa Dario Borso che ha avuto accesso alle lettere) racconterà di una caduta da 700 metri «che rese in briciole l’apparecchi­o e scorticò la prominenza che rende così simpatico il mio naso». Bilancio: sette giorni di riposo a Milano e tassativa richiesta di tenere all’oscuro del fattaccio sia la mamma sia il fratello.

Sempre a Giancarlo avrebbe scritto il 15 aprile 1918: «Volo parecchio — mi acciuffo di rado coi polli austriaci — ho concorso ad abbatterne uno — sto bene — ho pochissimi soldi sebbene vinca ancora a poker». Pochi giorni dopo si sarebbe inabissato per un malore, per un guasto o più probabilme­nte per un’acrobazia inconsulta, un «pasticcio» eccessivo.

L’epitaffio che Carlo detterà per la tomba di Longone dice, tra l’altro: «ci lasciò fanciullo / e sorridendo volle il suo fato». Sorridendo volle.

Il carattere

Fin da piccolo trafficava con eliche e modellini. Il maggiore: «Prego la guerra che prenda me, non lui»

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Aviatore Sopra, il tenente Enrico Gadda durante un addestrame­nto. Sotto, con il fratello maggiore Carlo Emilio

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