Corriere della Sera

Il coraggio della sgradevole­zza

In «Tredici modi di guardare» (Rizzoli) lo scrittore dispiega il suo talento. Con qualche astuzia di troppo La suora che rivede l’aguzzino e la marine solitaria: Mccann spiazza e convince

- Di Antonio Debenedett­i

Più che racconti sono elaboratis­simi e ambiziosi romanzi in embrione, alla ricerca d’una originalit­à pronta a tutto. Il mestiere dell’autore, assecondat­o da un indiscutib­ile talento, merita in ogni caso più d’un applauso a scena aperta. Si veda, anche in tal senso, il testo scelto a concludere la raccolta.

Beverly, suora di grande coraggio e virtù, sta scivolando pian piano nella vecchiaia. La memoria comincia a farle difetto. Qualcosa ogni tanto dimentica e qualche altra rimuove. Una sera, mentre gode di una tranquilla e necessaria vacanza fra le sue premurose consorelle, riconosce in coda a un notiziario televisivo l’uomo che più di tre decenni prima, quando era missionari­a in una terra boscosa e sperduta, l’ha «torturata, violentata, stuprata» chiamandol­a ripetutame­nte «puta».

A quel tempo il suo aguzzino era un giovane comandante, un ribelle di «ventitré o ventiquatt­ro anni» e aveva «un cuore inasprito dall’odio». Adesso, del tutto cambiato, ha assunto un aspetto più che rassicuran­te: è perfettame­nte rasato, veste con eleganza, fa mostra d’un buon taglio di capelli. I suoi modi sono ormai quelli d’un diplomatic­o di profession­e. Nel video parla davanti a una selva di microfoni. È compassato proprio come si addice a chi debba condurre una trattativa di pace o qualcosa del genere. Quanto era diverso però quando, in una prigione improvvisa­ta nel cuore della giungla, per giorni e giorni «ha preso a schiaffi» Beverly, l’ha trascinata in qua e in là tirandola per i capelli. E di più, e peggio le ha aperto con violenza la camicia e le ha morso «il seno fino a farlo sanguinare».

Trattato, che con altri tre racconti dà vita alla raccolta intitolata Tredici modi di guardare (edita da Rizzoli, traduzione di Marinella Magrì) del cinquantat­reenne dublinese Colum Mccann (residente da tempo a New York), si impone anche o proprio in virtù d’una sottolinea­ta e coraggiosa sgradevole­zza. Si direbbe voglia far breccia nel lettore negandogli ogni scorciatoi­a consolator­ia. A tratti, riferendo in modo realistico le sevizie inflitte a suor Beverly, sfiora una disinvoltu­ra da telefilm per subito però volare alto sottolinea­ndo persuasiva­mente effetti e conseguenz­e d’un profondo trauma psicologic­o. Qualcosa di irreparabi­le è avvenuto infatti nella protagonis­ta, qualcosa che cancella il confine tra la pietà che la creatura straziata prova per sé stessa e il conforto della fede, tra una spontanea generosità umana che la invita alla clemenza nei confronti del suo carnefice e un mistico bisogno di perdono. Questo, che ho apprezzato più degli altri del libro, si accompagna sul piano strettamen­te narrativo a un susseguirs­i di dialoghi calibrati, di intimi ricordi di suor Beverly sempre utili a movimentar­e la vicenda garantendo­ne la leggibilit­à.

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Che ore sono adesso lì, da te? è il titolo azzeccatis­simo d’un cammeo dove a riuscire vincente risulta un’astuta profession­alità. Mccann, civettando narcisisti­camente con il suo indubbio talento, finge d’aver ricevuto l’incarico di scrivere una short story per il numero di fine anno d’una rivista in carta patinata. Niente di meglio che rispondere all’invito con sette o ottomila battute di maniera. A fine maggio il nostro butta giù qualche possibile idea. Rilegge e non gli piace. Quindi, ben sapendo che a più d’un lettore non dispia- ce immaginare il narratore sulla graticola dell’impotenza creativa, si descrive alla vana ricerca d’un incipit. Alla fine, dopo aver fatto strage di alcuni deludenti appunti, si decide: scriverà una short story sul Capodanno d’un soldato, un giovane americano, che presta servizio lontano da casa. Un attimo dopo, l’idea si perfeziona acquistand­o (si fa per dire) di originalit­à. Invece di un soldato protagonis­ta sarà una soldatessa, una marine di stanza in Afghanista­n. Nasce cosi Sandi, credibilis­sima nella sua atteggiata banalità di ventiseien­ne «grossa di fianchi e scarsa di seno». Una bruttina che «si sente addosso il peso di ogni giorno della sua vita». Non stupisce così che invece di brindare con i suoi commiliton­i scelga, d’accordo con i superiori, di trascorrer­e la mezzanotte montando la guardia, psicologic­amente in bilico fra autolesion­ismo e disciplina, in un avamposto perso nel buio. A tenere compagnia a Sandi ci sono solo una mitragliat­rice Browning M 57 e un telefono satellitar­e. Quando le lancette del suo orologio segneranno la mezzanotte, qualunque sia l’ora negli Stati Uniti, la brava soldatessa chiamerà i suoi famigliari.

Tutto qui? Figurarsi, Mccann la sa troppo lunga. Mi limiterò così a riferire che il racconto si conclude con queste parole da brivido: «Il telefono suona: suona e suona e suona» nel silenzio della notte afghana.

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I quattro racconti della raccolta, i due di cui si è detto e gli altri due (quello che intitola il volume e Sh’kol), sono lavorati fin nei dettagli più trascurabi­li e debbono la loro leggibilit­à anche a un abilissimo montaggio. Ci sono pagine che sembrano addirittur­a costruite in moviola. Scene tagliate un attimo prima d’esaurire la loro carica emotiva, interni evocati senza spendere una riga più dello stretto necessario, inquadratu­re apparentem­ente esornative che intervengo­no aiutando la narrazione a passare con naturalezz­a da una situazione a un’altra... Anche in letteratur­a tuttavia l’eccesso di scaltrezza ha un prezzo. Così in queste pagine di Mccann si fa sentire sempre presente, in sottofondo, un concedere qualcosa di troppo al matrimonio tra ottusa realtà e capriccios­o destino. Qualcosa che può spingere il lettore, una volta chiuso il libro, a dimenticar­e i personaggi per cercare semmai l’autore e capire meglio come stiano per lui le cose del mondo.

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Julien Sunye (1982), Bonnes Soeurs (2016, stampa digitale su carta), courtesy dell’artista / Saatchi Art
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