Il coraggio della sgradevolezza
In «Tredici modi di guardare» (Rizzoli) lo scrittore dispiega il suo talento. Con qualche astuzia di troppo La suora che rivede l’aguzzino e la marine solitaria: Mccann spiazza e convince
Più che racconti sono elaboratissimi e ambiziosi romanzi in embrione, alla ricerca d’una originalità pronta a tutto. Il mestiere dell’autore, assecondato da un indiscutibile talento, merita in ogni caso più d’un applauso a scena aperta. Si veda, anche in tal senso, il testo scelto a concludere la raccolta.
Beverly, suora di grande coraggio e virtù, sta scivolando pian piano nella vecchiaia. La memoria comincia a farle difetto. Qualcosa ogni tanto dimentica e qualche altra rimuove. Una sera, mentre gode di una tranquilla e necessaria vacanza fra le sue premurose consorelle, riconosce in coda a un notiziario televisivo l’uomo che più di tre decenni prima, quando era missionaria in una terra boscosa e sperduta, l’ha «torturata, violentata, stuprata» chiamandola ripetutamente «puta».
A quel tempo il suo aguzzino era un giovane comandante, un ribelle di «ventitré o ventiquattro anni» e aveva «un cuore inasprito dall’odio». Adesso, del tutto cambiato, ha assunto un aspetto più che rassicurante: è perfettamente rasato, veste con eleganza, fa mostra d’un buon taglio di capelli. I suoi modi sono ormai quelli d’un diplomatico di professione. Nel video parla davanti a una selva di microfoni. È compassato proprio come si addice a chi debba condurre una trattativa di pace o qualcosa del genere. Quanto era diverso però quando, in una prigione improvvisata nel cuore della giungla, per giorni e giorni «ha preso a schiaffi» Beverly, l’ha trascinata in qua e in là tirandola per i capelli. E di più, e peggio le ha aperto con violenza la camicia e le ha morso «il seno fino a farlo sanguinare».
Trattato, che con altri tre racconti dà vita alla raccolta intitolata Tredici modi di guardare (edita da Rizzoli, traduzione di Marinella Magrì) del cinquantatreenne dublinese Colum Mccann (residente da tempo a New York), si impone anche o proprio in virtù d’una sottolineata e coraggiosa sgradevolezza. Si direbbe voglia far breccia nel lettore negandogli ogni scorciatoia consolatoria. A tratti, riferendo in modo realistico le sevizie inflitte a suor Beverly, sfiora una disinvoltura da telefilm per subito però volare alto sottolineando persuasivamente effetti e conseguenze d’un profondo trauma psicologico. Qualcosa di irreparabile è avvenuto infatti nella protagonista, qualcosa che cancella il confine tra la pietà che la creatura straziata prova per sé stessa e il conforto della fede, tra una spontanea generosità umana che la invita alla clemenza nei confronti del suo carnefice e un mistico bisogno di perdono. Questo, che ho apprezzato più degli altri del libro, si accompagna sul piano strettamente narrativo a un susseguirsi di dialoghi calibrati, di intimi ricordi di suor Beverly sempre utili a movimentare la vicenda garantendone la leggibilità.
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Che ore sono adesso lì, da te? è il titolo azzeccatissimo d’un cammeo dove a riuscire vincente risulta un’astuta professionalità. Mccann, civettando narcisisticamente con il suo indubbio talento, finge d’aver ricevuto l’incarico di scrivere una short story per il numero di fine anno d’una rivista in carta patinata. Niente di meglio che rispondere all’invito con sette o ottomila battute di maniera. A fine maggio il nostro butta giù qualche possibile idea. Rilegge e non gli piace. Quindi, ben sapendo che a più d’un lettore non dispia- ce immaginare il narratore sulla graticola dell’impotenza creativa, si descrive alla vana ricerca d’un incipit. Alla fine, dopo aver fatto strage di alcuni deludenti appunti, si decide: scriverà una short story sul Capodanno d’un soldato, un giovane americano, che presta servizio lontano da casa. Un attimo dopo, l’idea si perfeziona acquistando (si fa per dire) di originalità. Invece di un soldato protagonista sarà una soldatessa, una marine di stanza in Afghanistan. Nasce cosi Sandi, credibilissima nella sua atteggiata banalità di ventiseienne «grossa di fianchi e scarsa di seno». Una bruttina che «si sente addosso il peso di ogni giorno della sua vita». Non stupisce così che invece di brindare con i suoi commilitoni scelga, d’accordo con i superiori, di trascorrere la mezzanotte montando la guardia, psicologicamente in bilico fra autolesionismo e disciplina, in un avamposto perso nel buio. A tenere compagnia a Sandi ci sono solo una mitragliatrice Browning M 57 e un telefono satellitare. Quando le lancette del suo orologio segneranno la mezzanotte, qualunque sia l’ora negli Stati Uniti, la brava soldatessa chiamerà i suoi famigliari.
Tutto qui? Figurarsi, Mccann la sa troppo lunga. Mi limiterò così a riferire che il racconto si conclude con queste parole da brivido: «Il telefono suona: suona e suona e suona» nel silenzio della notte afghana.
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I quattro racconti della raccolta, i due di cui si è detto e gli altri due (quello che intitola il volume e Sh’kol), sono lavorati fin nei dettagli più trascurabili e debbono la loro leggibilità anche a un abilissimo montaggio. Ci sono pagine che sembrano addirittura costruite in moviola. Scene tagliate un attimo prima d’esaurire la loro carica emotiva, interni evocati senza spendere una riga più dello stretto necessario, inquadrature apparentemente esornative che intervengono aiutando la narrazione a passare con naturalezza da una situazione a un’altra... Anche in letteratura tuttavia l’eccesso di scaltrezza ha un prezzo. Così in queste pagine di Mccann si fa sentire sempre presente, in sottofondo, un concedere qualcosa di troppo al matrimonio tra ottusa realtà e capriccioso destino. Qualcosa che può spingere il lettore, una volta chiuso il libro, a dimenticare i personaggi per cercare semmai l’autore e capire meglio come stiano per lui le cose del mondo.