«Me ne vado la superprocura non può lottare contro la lobby delle federazioni»
Ha gettato la spugna ieri mattina alle 8 appena arrivato, puntuale come ogni giorno, nel suo ufficio a Palazzo H del Coni, a Roma. Il generale Enrico Cataldi, chiamato tre anni fa da Giovanni Malagò a guidare una riforma storica della giustizia sportiva italiana, ha rassegnato le sue dimissioni da procuratore generale proprio nelle mani del presidente del Coni, che aveva scelto questo alto graduato dell’arma, in pensione dopo una carriera dedicata alla lotta al terrorismo, per un compito difficile: evitare che la giustizia sportiva restasse affidata a «giudici» scelti, nominati e spesso «orientati» dagli stessi presidenti federali. «Dimissioni irrevocabili» spiega Cataldi, che ha istruito decine di processi davanti al Collegio di Garanzia (con altissima percentuale di condanne) avocandoli a procure federali pigre o inerti che tenevano gli atti chiusi in un cassetto. E affrontando temi forti e scomodi come il match fixing, le molestie sessuali, le compravendite di voti, la vicenda «Paga per correre» nel ciclismo. Cataldi agiva invitando con le buone le procure federali a istituire procedimenti (spesso già trattati sul piano penale) o avocandoli a chi non sentiva ragioni e diventando di fatto «pubblico ministero» nei processi. Il progetto, in sintesi, di trovare un giudice naturale, terzo e imparziale in un sistema in cui, ancora oggi, un presidente federale messo sotto accusa risponde a procuratore e giudici da lui designati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la sentenza con cui due giorni fa il tribunale di appello della Federazione danza sportiva, ha concesso una grazia/indulto all’ex presidente Ferruccio Galvagno, radiato per la vicenda di «Danzopoli» e di nuovo sotto accusa (sportiva) per aver favorito, secondo la procura generale, l’elezione di un suo uomo proprio per ottenere la cancellazione della sanzione e tornare al vertice. A Galvagno è stata concessa la riduzione della pena dalla radiazione a cinque anni ammettendo automaticamente l’indulto. «Una decisione — spiega Cataldi — frutto di un patto scellerato che vanifica il progetto di riforma della giustizia. Ma non me ne vado per questo: all’interno del Coni c’è una lobby potente, contraria al progetto di Malagò, che è arrivata ad ottenere un pronunciamento dell’avvocatura dello Stato che giudica il mio ruolo incompatibile con la legge Madia (quella che vieta a chi ha una pensione statale di avere un ruolo dirigenziale retribuito, ndr) pur non essendo io un dirigente e pur godendo della carica da prima dell’applicazione della legge. Malagò mi ha scongiurato di restare, perché sono in ballo procedimenti importanti anche nel calcio, col campionato alle porte. Ma non ci sono le condizioni. Sapevamo, io, il presidente e i miei sostituti, che la riforma avrebbe incontrato resistenze procurandoci molti nemici. Ma qui c’è un muro che si oppone a ogni cambiamento: la giustizia è e deve restare cosa delle Federazioni e nessuno super partes deve poterci mettere il naso. Ho passato la vita a lottare cercando di fare giustizia e seguendo casi difficilissimi, ora mi rendo conto che nello sport l’impresa è superiore alle mie forze».