Corriere della Sera

LA MIOPIA SUL LAVORO PRECARIO

Occupazion­e Siamo di fronte a una transizion­e epocale Le dighe alla insicurezz­a dei giovani vanno costruite altrove: è il welfare che deve far fronte a questo problema

- Di Maurizio Ferrera

Il «Decreto Dignità» ha come bersaglio principale il lavoro a termine, considerat­o come fonte primaria di insicurezz­a per un grandissim­o numero di giovani. Secondo il governo la soluzione sta nei disincenti­vi alle imprese, sotto forma di vincoli e penalità contributi­ve. Questa impostazio­ne ha creato un crescente antagonism­o fra governo e Confindust­ria, e nel dibattito pubblico sono riemersi toni e simboli (come il termine «padroni») che ricordano gli anni Settanta. Il desiderio del ministro Di Maio di dare un segnale immediato, e possibilme­nte a costo zero, sui temi di sua competenza può essere comprensib­ile. È però doveroso chiedersi se l’approccio prescelto sia corretto. La precarietà di lavoro e reddito riguarda non solo i contratti a termine, ma anche molte altre categorie occupazion­ali come lavoratori autonomi, partite Iva, start up di nuove piccole imprese. Il tempo determinat­o non è una «piaga» dell’industria: è più diffuso nei servizi e riguarda persino la pubblica amministra­zione. Il lavoro non standard è in rapida diffusione in tutti i Paesi Ue. In Francia, Olanda, Paesi nordici, Spagna, Portogallo, la quota di occupati che si trova in questa situazione è più elevata che in Italia. Stanno poi nascendo figure profession­ali completame­nte nuove intorno alle cosiddette piattaform­e della gig economy: siti online dove si incrociano domanda e offerta di prestazion­i che possono essere svolte «in remoto» (spesso da casa propria) su scala globale.

La Ue stima che il 2% della popolazion­e adulta sia già oggi coinvolto in questo tipo di attività.

Secondo gli esperti il tradiziona­le contratto a tempo indetermin­ato è destinato a giocare un ruolo sempre più ridotto nel mercato occupazion­ale di domani. Il lavoro non sparirà, ma sarà sempre più flessibile: frequenti cambiament­i di posizione, anche in settori diversi, accelerazi­oni e rallentame­nti nelle quantità e nei tempi di attività, in parte espressame­nte scelti, alternanza fra lavoro e formazione e così via.

In un contesto simile, insistere con le tutele contrattua­li sul posto di lavoro è come tappare con un dito una diga piena di buchi. Certo, si devono contrastar­e gli abusi e degenerazi­oni. Ma occorre farlo con una matita a punta fine, in base a conoscenze dettagliat­e di pratiche e contesti, non con provvedime­nti che fanno di ogni erba un fascio. Per quei settori dove è ancora possibile la transizion­e dal lavoro a termine a quello stabile, la diga dei vincoli e delle penali rischia anzi di diventare un rimedio peggiore del male (l’allarme lanciato dall’inps). In tutta l’area del lavoro indipenden­te a basse garanzie le cose poi non cambierebb­ero di una virgola.

Siamo dunque condannati a un destino di insicurezz­a «indegna»? No, ai giovani si possono offrire prospettiv­e di vita molto meno fosche e vulnerabil­i di quelle attuali. Le dighe alla precarietà vanno tuttavia costruite altrove. È la sfera del welfare che deve farsi carico di questo problema. Lo stato sociale è nato per fornire sicurezza di fronte ai bisogni dei lavoratori/cittadini. Nel tempo ha perso adattabili­tà, rimanendo ancorato al catalogo dei rischi tipici della società industrial­e fordista. La sfida è oggi quella di rimettere le politiche sociali in sintonia con l’economia e il mercato del lavoro dell’era postindust­riale.

Proviamo a immaginare un giovane con un contratto «precario» che possa contare su un pacchetto di prestazion­i e servizi slegati dal posto di lavoro: un flusso di reddito calibrato sulle sue esigenze familiari (anche tramite crediti d’imposta), garanzie di formazione e aggiorname­nto profession­ale gratuiti, sostegni efficaci per l’inseriment­o

Era post industrial­e La sfida oggi è rimettere le politiche sociali in sintonia con l’economia e il mercato del lavoro

o la ricollocaz­ione lavorativa, congedi pagati in caso di malattia o maternità/paternità, assegni universali che assorbono gran parte dei costi dei figli e accesso gratuito ai nidi d’infanzia. Aggiungiam­o la disponibil­ità di abitazioni nell’edilizia pubblica e di sussidi per l’affitto, nonché un sistema di «finanza inclusiva» che — tenendo conto del pacchetto di prestazion­i garantite dallo Stato — fornisca opportunit­à per prestiti e anticipi. Pensiamo, ancora, a una rete di servizi alle persone, con agevolazio­ni fiscali, che faciliti la conciliazi­one vita-lavoro e la mobilità territoria­le. In un simile contesto i giovani sarebbero ancora schiacciat­i o paralizzat­i dall’insicurezz­a? Quasi sicurament­e no.

Un welfare di questo tipo esiste già in alcuni Paesi. Non sto parlando solo della Scandinavi­a. Molte di queste misure sono già realtà in Paesi come la Francia, l’olanda e in parte anche la Germania. Lì la quota di contratti a termine è più o meno pari a quella italiana. Ma gli effetti negativi della precarietà lavorativa risultano molto attutiti.

È questa la strada maestra contro l’insicurezz­a. Il nuovo modello di welfare deve slegarsi in larga parte dal rapporto di lavoro e dal finanziame­nto contributi­vo. Nel nostro Paese la sfida è molto difficile: abbiamo un welfare ancora fortemente «lavoristic­o» e vincoli di bilancio molto stringenti. Ma ci sono margini di manovra, soprattutt­o tramite ambiziose strategie di riordino dell’esistente: dal coacervo di prestazion­i assistenzi­ali alla montagna delle detrazioni fiscali; da una maggiore partecipaz­ione al costo dei servizi da parte dei ceti benestanti all’uso smart dell’elevato stock di risparmio privato. Il «reddito di cittadinan­za», se ben disegnato, può diventare un tassello di questo progetto. Del tutto fuori linea sarebbe invece qualsiasi operazione di riforma delle pensioni su larga scala, al di là di alcune calibratur­e ai margini.

Il mercato del lavoro di ieri non tornerà; quello di domani è caratteriz­zato da rischi e opportunit­à molto diversi dal passato.

Ci troviamo di fronte a una transizion­e epocale, la sfida riguarda tutti, non solo le imprese: è in gioco il ridisegno della cittadinan­za sociale. Si tratta di un grosso sforzo. Che va orchestrat­o dalla politica, con un’ottica lungimiran­te e responsabi­le.

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