I democratici provano a interrogare l’interprete
Cosa si sono detti a Helsinki? La teoria dello «scambio» tra Russiagate e Nord Corea
WASHINGTON Per molte ore le uniche smozzicate informazioni sul vertice di Helsinki sono arrivate da fonti ufficiali russe. Basta questo dato per descrivere la surreale anomalia del vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin. Al momento nell’amministrazione di Washington solo tre persone sanno che cosa si sono detti i due leader: il Segretario di Stato, Mike Pompeo, il consigliere per la sicurezza John Bolton, che facevano parte della delegazione, e il Segretario alla Difesa James Mattis. Il capo del Pentagono era rimasto nella capitale americana, ma è stato il primo interlocutore che il presidente ha visto al suo rientro, martedì 17 luglio, nello Studio Ovale.
Servizi segreti e Congresso sono totalmente all’oscuro. I parlamentari democratici hanno provato la mossa della disperazione, un’iniziativa senza precedenti: convocare come testimone davanti al Congresso l’interprete Marina Gross, l’unica americana sempre presente durante il summit tra i due leader. Mozione respinta dai repubblicani. E certamente, in una situazione di normalità, non spetta certo all’interprete svelare al mondo il contenuto di un colloquio ai massimi livelli.
I consiglieri della Casa Bianca, ieri, hanno fatto filtrare in modo anonimo quali saranno i temi del summit d’autunno. Come riporta l’agenzia Ap: «Interferenze nella campagna elettorale, la proliferazione nucleare, l’iran e la Siria. I due leader continueranno il dialogo iniziato a Helsinki»
In realtà la tesi più quotata a Washington, specie al Congresso, è che durante il vertice finlandese sia maturato uno scambio: Trump ha garantito che avrebbe minimizzato il dossier sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016; Putin ha promesso più impegno per facilitare il negoziato con la Corea del Nord e, soprattutto, per uscire dalla crisi siriana, contenendo il ruolo dell’iran.
Nelle indiscrezioni si fa riferimento anche al New Start, il trattato per la riduzione delle armi nucleari, firmato da Barack Obama e da Dmitri Medvedev nel 2010. L’accordo scade nel febbraio del 2021. Non risulta, però, che i due leader ne abbiano parlato nei dettagli. Avrebbero, invece, concordato di lasciare la prima analisi alle strutture militari. Nei mesi scorsi, sempre a Helsinki, si sono già confrontati i capi di Stato maggiore delle due parti.
Su un punto, però, c’è consenso diffuso. Trump ha tenuto la linea sulle sanzioni imposte a Mosca dopo l’annessione della Crimea, nel 2014. «Ma Putin — racconta Teja Tilikainen, direttrice dell’istituto di Affari internazionali di Helsinki e specialista di politica russa — non ci aveva fatto grande affidamento. Sapeva che non ci sono ancora le condizioni, né negli Stati Uniti né in Europa, per cancellare le misure punitive».
L’ucraina, dunque, non dovrebbe figurare nell’agenda del Trump-putin bis.
Unica testimone Marina Gross, traduttrice al summit, è stata «blindata» dai repubblicani