Corriere della Sera

I Ros, la trattativa e «quelle eclatanti dimentican­ze» di chi sapeva

- Dal nostro inviato Giovanni Bianconi

PALERMO Il fatto che i carabinier­i del Ros cercassero «coperture politiche» per i loro contatti con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci, è la dimostrazi­one che l’obiettivo non era solo l’acquisizio­ne di notizie utili alla ricerca dei boss latitanti, ma volevano «instaurare un dialogo con Cosa nostra per ottenere che questa ponesse termine alla strategia di contrappos­izione totale con lo Stato». Così scrivono i giudici della Corte d’assise per motivare la condanna degli ex ufficiali dell’arma Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno (insieme a Marcello Dell’utri e alcuni «uomini d’onore») per il reato di «minaccia a corpo dello Stato» nella cosiddetta trattativa fra le istituzion­i e le cosche. Non solo. Mori e De Donno «si accreditar­ono verso gli interlocut­ori mafiosi dicendo loro (o facendo credere loro) di rappresent­are le istituzion­i dello Stato o coloro che, comunque, avrebbero avuto il potere di soddisfare eventuali richieste indicate dai vertici mafiosi».

Testimonia­nze tardive

La vicenda delle «coperture politiche» è racchiusa nelle informazio­ni giunte all’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli attraverso Liliana Ferraro, che dopo Capaci aveva preso il posto di Giovanni Falcone; al segretario generale della presidenza del Consiglio Fernanda Contri; al presidente della commission­e antimafia dell’epoca, Luciano Violante. Lo hanno raccontato gli stessi destinatar­i dei contatti, «sia pure tardivamen­te» e solo dopo che ne aveva accennato Massimo Ciancimino, il figlio di «don Vito». La sentenza parla di «eclatanti dimentican­ze» della Ferraro, e sottolinea i silenzi pluriennal­i sia di Violante che di Contri; solo la nuova indagine avviata nel 2009 con le prime dichiarazi­oni di Ciancimino jr ha «fatto “recuperare la memoria” a molti esponenti delle istituzion­i di allora», e i giudici inseriscon­o nell’elenco pure gli ex Guardasigi­lli ● Il magistrato Paolo Borsellino, ucciso a 52 anni Martelli e Giovanni Conso.

Non ci sono indicazion­i sulle ragioni delle «reticenti dichiarazi­oni» nelle precedenti inchieste della Ferraro e degli altri, che dal 2009 hanno contribuit­o a costituire l’ossatura dell’accusa e — oggi — delle motivazion­i delle condanne. La Corte d’assise ritiene invece di aver individuat­o il vero motivo per cui Mori volle avvisare quelle persone dei suoi incontri con Vito Ciancimino (non però i i suoi superiori nell’arma, né lo stesso Paolo Borsellino, come gli aveva consigliat­o la Ferraro): la trattativa per «superare la loro contrappos­izione frontale» tra Stato e mafia. Che nella lettura dei giudici ha ottenuto l’effetto contrario, rafforzand­o il ricatto di Cosa nostra. «Può ritenersi provato oltre ragionevol­e dubbio — si legge nella sentenza — che fu proprio l’improvvida iniziativa dei carabinier­i del Ros a indurre Riina a tentare di sfruttare Il fumo e le auto in fiamme in via D’amelio a Palermo dopo l’esplosione della Fiat 126: è il 19 luglio 1992 ai propri fini quel segnale di debolezza delle istituzion­i pervenutog­li dopo la strage di Capaci».

Ministro condiziona­to

In un altro passaggio delle motivazion­i è scritto che «la storia non si fa con i se, ma è ferma convinzion­e della Corte che senza l’apertura al dialogo sollecitat­a ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al governo sotto forma di condizioni per cessare la contrappos­izione frontale con lo Stato, la spinta stragista di carattere vendicativ­o riconducib­ile alla volontà prevaricat­rice di Riina si sarebbe inevitabil­mente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993». Operato proprio dal Ros di Mori, e caratteriz­zato dalla «anomala omissione

Le stragi del ‘93 Secondo i giudici l’apertura al dialogo con i boss ha spinto anche le stragi del ‘93

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La bomba
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