«Per il tuo compleanno aspetto un dono da te»
Domani avresti compiuto gli anni: ma non ci sei più. Più: questo monosillabo dittongato, con quell’accento che lo rende leggero, quasi cantabile, è diventato per me una delle parole più atroci del nostro vocabolario. Il «più» nega ogni speranza, è l’avverbio che indica una quantità maggiore e scarnifica la vita fino a ridurla all’osso. Nella morte, nella tua morte si assommano una serie infinita di più: non ti vedrò più, non ti parlerò più, non ti bacerò più, non rideremo più, non pescheremo più, non parleremo più di Dante, non ti prenderò più in giro per la tua ossessiva mania di perfezione che una imprecisa come me mal comprendeva, non compereremo più mobili insieme, né più mi farai meravigliosi doni, né festeggeremo il nostro vero anniversario, il Capodanno, dicendoci che ci pareva impossibile che passassero gli anni e che ci sentissimo ancora così ragazzi nel nostro stare insieme, non ci congratuleremo più a vicenda per aver educato insieme nostro figlio, un giovane uomo, a cui il dolore ha imbiancato i capelli, che si impegna a dimostrarmi ogni giorno il suo grande affetto per riempire un vuoto che alcuni giorni diventa voragine che inghiotte tutto; e la vita, allora, mi pare non abbia più senso. Fammi tu un dono per il tuo compleanno: indicami la via che in questa selva oscura non trovo più.