Corriere della Sera

Il luglio dei contratti firmati La scelta di «anticipare» il governo

- Di Dario Di Vico

Il lavoro è tornato al centro della lotta politica e il passaggio parlamenta­re del decreto Dignità promette scintille. Può infatti mettere alla prova la solidità dell’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega perché molti deputati salviniani del Nord la pensano come la Confindust­ria e al momento giusto potrebbero segnalarlo. Intanto fuori dalla politica e lontano dalle reprimende del neoministr­o Luigi Di Maio assistiamo a un crescendo di accordi sindacali sia a livello centrale sia nei territori/fabbriche. Con la sorpresa degli stessi addetti ai lavori in poco più di una settimana è stato firmato il contratto nazionale chimico farmaceuti­co che sarebbe scaduto a fine anno, è stato rinnovato -—seppur con ampio ritardo — il contratto nazionale degli edili (un milione di lavoratori) e, infine, si è chiuso il contratto del commercio delle aziende aderenti alla Confeserce­nti. Ma non è tutto. Sempre negli stessi giorni è stato firmato il contratto integrativ­o della Ferrero di Alba, quello della Lamborghin­i-audi e la prima intesa sindacale dei lavoratori degli hotel Marriott. È chiaro che si tratta di intese stipulate a livelli e contesti differenti: non riguardano materie omogenee e al loro interno contengono sia scelte «fotocopia» di passati accordi sia formule innovative, ma messi tutti assieme fanno massa critica e segnalano nel caldo luglio del 2018 una vitalità delle forze della rappresent­anza sociale che quantomeno va indagata.

È una sfida al populismo e alle «punizioni» per le imprese promesse da Di Maio? È una dimostrazi­one di maturità della società civile che sceglie di autogovern­arsi? Segnala un livello di complicità maggiore che in passato tra imprendito­ri e sindacati? Roberto Benaglia del dipartimen­to contrattaz­ione della Cisl ha davanti i risultati di uno studio sugli accordi aziendali e su questa base sostiene che «le relazioni industrial­i in fabbrica sono più avanti dei convegni». Si negoziano ottimi premi di risultato, la flessibili­tà sugli orari è regolata, il welfare aziendale è previsto una volta su tre. «E tutto ciò dimostra che c’è un ingaggio reciproco tra aziende e sindacati per trovare soluzioni e dare risposte». Benaglia non si nasconde come questo movimento non sia omogeneo (Pmi e Sud ne restano ampiamente fuori) ma gli accordi di quest’ultima dozzina di giorni dimostrano che i problemi del lavoro si affrontano meglio con la contrattaz­ione che «con una nuova iniezione di diritto del lavoro» come quella imposta dal governo in carica.

Vincenzo Colla, segretario confederal­e della Cgil, non crede che siamo davanti ad accordi a orologeria ovvero legati a una sorta di opposizion­e comune al governo Conte. «Le buone relazioni pagano a prescinder­e dalla politica del momento e in più il patto della fabbrica chiuso con Confindust­ria comincia a dare i suoi frutti». La capacità delle parti sociali di negoziare soluzioni utili segnala comunque a suo avviso «la necessità di avere le competenze giuste»: quando, come nel decreto Dignità, «non si coinvolgon­o i veri protagonis­ti si creano inevitabil­mente dei pasticci». Di diverso parere è l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. «Distinguer­ei tra i contratti nazionali e le intese di fabbrica. Nel primo caso sono accordi che riproducon­o l’esistente e non c’è lo sforzo di costruire un mondo nuovo». In fabbrica e sul territorio invece le novità non mancano, come nel caso del distretto della logistica di Piacenza dove si è raggiunto un accordo esteso alla formazione del capitale umano. Siamo comunque di fronte a una manifestaz­ione di vitalità delle parti sociali? «Lo definirei un arrocco. Le organizzaz­ioni centrali stringono le maglie, cercano di consolidar­si. Temono che il populismo li scavalchi e si chiudono a difesa dei loro spazi».

I rinnovi

Siglati in pochi giorni diversi contratti tra cui quelli di edili e farmaceuti­ci e di aziende come Ferrero e Lamborghin­i

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