Corriere della Sera

Dalla guerra al ring In Iraq la rinascita passa per il pugilato

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«He’s a good shooter». Tutti dicono che Saadi tira molto bene, che mira, che colpi secchi, e anche il giornalist­a italiano va spesso a guardare quel peso massimo ragazzino, come evita le corde, come lavora ai fianchi, e in effetti, sì, è d’accordo anche lui, davvero bravo: bel pugile, buon colpitore. Nella palestra di Alsadr City, arriva l’ora dell’allenament­o e Saadi è sempre lì che ci dà dentro. «Per un po’ l’ho osservato — racconta Riccardo Romani, reporter innamorato della boxe quanto delle storie che da una vita scova in giro per il mondo — e ho cercato d’immaginare che futuro potesse avere, un diciottenn­e iracheno che boxava in quel posto. Usava le pareti di cemento come sacco, i campi di calcio come ring e mi stupivo. Soprattutt­o, non avevo capito l’equivoco: se dicevano “shooter”, si riferivano ai suoi colpi da cecchino, non da pugile. Perché Saadi ogni fine settimana si levava i calzoncini, indossava la divisa e andava a Falluja. Smetteva di combattere sul ring, andava a combattere al fronte». Se ci vuole molta rabbia e molta disperazio­ne, per conquistar­e il mondo a pugni, c’è forse un luogo più furibondo e senza futuro di questa periferia sciita di Bagdad, dove nel 2003 esultarono per primi alla cacciata di Saddam e ormai sono gli ultimi ad aspettarsi un po’ di pace? 650 autobombe in 15 anni, 13 mila civili ammazzati, 45 mila feriti. È da qui che parte la favola bella e tremenda della squadra irachena di boxe che due anni fa partecipò all’olimpiade di Rio e che Romani ha girato in «Hands of God», Mani di Dio, un docufilm prodotto da

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