La voglia di prendersi tutto
Più che una rottura col passato, c’è una voglia di rompere quasi fine a se stessa, frustrata da vecchie logiche.
Quella che sta prendendo corpo con le nomine del governo è un’italia maldestramente manichea; innamorata della logica della nemesi, ma incapace di portarla fino in fondo per mancanza di visione e di classe dirigente. La nuova maggioranza copre la strategia di occupazione con l’esigenza di «vendicare» gli esclusi. Si tratti di Alta velocità o di enti pubblici, emerge un’ebbrezza del potere che spinge M5S e Lega ad azzerare, destrutturare: in certi casi magari con qualche ragione, in altri in maniera a dir poco erratica. Sono dinamiche che vanno al di là dei profili personali dei prescelti, e si inseriscono nel solco della continuità. A guardar bene c’è una stucchevole ripetitività nei governi che presentano le decisioni come «rivoluzioni culturali»; e nelle opposizioni che additano «inaccettabili lottizzazioni». La verità è che raramente le maggioranze si sottraggono alla tentazione di prendersi ogni centimetro di potere, e di presentare la conquista delle cariche come una novità virtuosa. E, sul versante opposto, gli avversari dimenticano sempre quello che hanno fatto quando a vincere le elezioni erano loro.
Per questo è facile a M5S e Lega replicare agli attacchi facendosi scudo con le nomine del centrosinistra e, in precedenza, di Forza Italia. L’unica nota stonata è la pretesa di accreditare un «prima» dove tutto era raccomandazione e
Le vecchie logiche
Una logica manichea di rottura che però è contraddetta dalle vecchie logiche di spartizione
parassitismo, e un «dopo» dove invece dovrebbero brillare gli ottimati del populismo: anche quelli che vengono presentati come «garanti» ma regalano profili controversi. Si tratta di uno schema che permette di accusare di sabotaggio chiunque contesti l’assioma della «selezione a altissimo livello» gridato dalla maggioranza M5s-lega. E pazienza se a smentire la loro vulgata bastano le parole coerenti, nella loro sconclusionatezza, di Beppe Grillo. Il «garante» dei Cinque Stelle, vero sabotatore del governo di Giuseppe Conte, ha dichiarato che, fosse per lui, i parlamentari sarebbero scelti «per sorteggio». Poi, mentre il premier ribadiva al Corriere che l’euro «non è in discussione», ha riproposto un referendum anticostituzionale sulla moneta unica. A questo si aggiungono le contorsioni sull’alta velocità tra M5S e Lega. Il risultato è una confusione che stordisce. Eppure, sembra che l’opinione pubblica non si sia pentita del voto espresso il 4 marzo. È comprensibile: la grande fortuna del nuovo potere è che i predecessori non possono scagliare prime pietre, dopo avere esasperato il Paese. Ma il rischio di M5S e Lega è di velare dietro gesti demagogici e simbolici l’incapacità di cambiare davvero le cose. Nelle nomine si intravede una contesa tra cordate contrapposte, in grado di colonizzare la politica e di piegarla alle proprie logiche. In quanto sta avvenendo preoccupa questo: i registi ufficiali della presunta «rivoluzione» appaiono i leader politici della maggioranza. Ma si ha la sensazione che ce ne siano altri , forse perfino più potenti, che rimangono dietro le quinte, proiettando sulla palingenesi di facciata l’ombra di un’inconfessabile continuità. Sarebbe triste se alla fine restituissero un Paese più ingessato, declinante e rancoroso di quanto già sia adesso.