Corriere della Sera

Giancarlo Gentilini «Ho scritto a Trump: ti nomino sceriffo numero 2» L’ex sindaco di Treviso: in vent’anni non ho mai fatto un giorno di ferie

- Di Stefano Lorenzetto

Giancarlo Gentilini, il sindaco sceriffo che ha riconquist­ato Treviso per interposta persona, è talmente popolare da potersi permettere di appendere i quadri sulle scale del condominio, anziché in salotto. Salendo nel suo modesto appartamen­to, al primo piano di un caseggiato Ina del 1953, s’incontra un dipinto che lo raffigura in giacca bianca, cravatta verde e cappello nero da cowboy, assiso in trono fra quattro giovani donne adoranti e scosciate. «Un po’ di dittatura ci vuole. Conosci “Figli di nessuno”?», e intona la canzone degli alpini: «Ma ne manca uno che ci sappia comandare e dominaaar...».

Da quando nell’ottobre scorso gli è morta la prima moglie, Teresina Pini, il leader leghista, 89 anni venerdì prossimo, usa l’alloggio come ufficio. Ci resta fino alle 16, favorito dal fatto che a mezzogiorn­o non mangia mai. Dopodiché trasloca dall’altra parte della strada, nell’abitazione di Maria Assunta Pace, 71 anni, la seconda moglie originaria di Potenza, sposata civilmente il 26 maggio a Viano (Reggio Emilia). Ricordando la madre dei suoi due figli, Gentilini appare turbato: «Con la mente, Teresina viveva altrove. In quattro anni l’ho vista spegnersi, era scesa da 80 chili a 30. Credo che in certi casi l’eutanasia sia una forma di carità cristiana».

Il Genty si mantiene invece bello tonico. Appena Donald Trump fu eletto presidente degli Stati Uniti, gli inviò una lettera per informarlo che aveva espugnato la Casa Bianca con il programma sperimenta­to dal sindaco di Treviso nel 1994. Non avendo ricevuto risposta, gli ha scritto un’altra volta: «Ti nomino sceriffo numero 2, perché il numero 1 sono io».

Veramente alle recenti elezioni comunali lei è arrivato terzo.

«Sì, ma senza la lista Zaia-gentilini, che ha raccolto l’11,38 per cento, col cavolo che Mario Conte veniva eletto al primo turno».

Un Conte premier, un Conte sindaco.

«Matteo Salvini mi ha pregato di scendere in campo con il governator­e del Veneto, che è un mio allievo. Gentilini e Zaia sono nomi biblici, sai?».

E allora com’è che nel 2013 fu battuto da Giovanni Manildo del Pd?

«Ostrega, era un momento tragico per la Lega. Bossi, il Trota, Belsito, i diamanti... Mi dissociai quando il segretario urlò che il tricolore andava gettato nel cesso. Eh no! Dove c’è una bandiera italiana, di solito trovo un Cristo, una Madonna e la foto di un caduto in guerra».

Ora come va con il Senatùr?

«Benone. Ogni tanto mi telefona. Il 21 agosto non posso più invitarlo con Giulio Tremonti e altri 90 amici a Vittorio Veneto, il mio paese natale, per la festa di Santa Augusta. Per impedirmi di ospitarlo, l’ultima volta hanno bruciato nottetempo Villa Gentilini, costruita nel Seicento».

È contento del governo M5s-lega?

«Bisognava vincere senza i 5 Stelle. nemico va ucciso al primo colpo».

Considera i grillini suoi nemici?

Il

«Ma no, mi sono simpatici. Però non mi pare che facciano il tifo per Dio, patria e famiglia. Comunque, pur di rottamare falce e martello, li accetto».

Quindi Beppe Grillo le è simpatico.

«È un comico. Come politico non l’ho mai preso in consideraz­ione».

E Luigi Di Maio?

«Mi ricorda Bossi quando parlava di secessione incruenta, senza armi. Un controsens­o».

Immagino che condivida la linea di Salvini sull’immigrazio­ne.

«Eh ciò, varda ti! Predico dal 1995 che bisogna schierare la Marina militare per impedire gli sbarchi. Le acque territoria­li

Non butterò mai il tricolore nel cesso: ricorda i soldati caduti Cosa non sopportavo?

Chi veniva a chiedere favori

italiane sono come il Piave, fiume sacro alla patria. I neri devono imparare che non gli conviene partire. Stop».

E nelle concerie del Vicentino chi ci va?

«L’immigrazio­ne è una ricchezza».

Ho capito bene?

«Sì. Gli italiani nel mondo hanno portato ricchezza. Ma erano ossequenti alle leggi del Paese che li ospitava. Prendi la Svizzera. Per entrarci dovevi essere di sana e robusta costituzio­ne fisica. Nel 1949 un mio amico operaio fu respinto alla frontiera perché aveva i denti cariati e la sanità elvetica non intendeva spendere soldi per curargliel­i. Per chi approdava nel porto di Ellis Island, gli Stati Uniti nel secolo scorso avevano fissato le quote d’ingresso in base alla nazionalit­à».

Non è che lei da sindaco ci andasse più leggero. Fece togliere le panchine per impedire che le usassero gli immigrati.

«Espropriav­ano i nostri vèci del diritto al riposo: nessuno si siede dove ha dormito un negretto. Misi anche le fioriere sui parapetti lungo il Sile per impedire che traslocass­ero lì le loro chiappe».

Voleva arrestare le musulmane velate.

«E se sotto il burqa hanno il mitra?».

Chiuse il centro storico ai cani.

«La loro urina corrode la pietra d’istria. Colonne con duemila anni di storia ridotte a vespasiani. Ma ci fu una levata di scudi e neppure i negozianti, benché esasperati dalla pipì sugli stipiti delle porte, mi diedero la solidariet­à».

Vietò la gomma da masticare.

«Solo se sputata per terra».

Teschi disegnati sull’asfalto negli incroci pericolosi.

«Un deterrente immediato, invitava a frenare. I comunisti me li hanno tolti».

Il primo dovere di un sindaco qual è?

«Stare in mezzo alla gente. In vent’anni non ho mai fatto un giorno di ferie. Il mio ufficio in municipio era aperto anche a Natale e a Capodanno».

La sua nuova moglie è leghista?

«Simpatizza. Non ha il fuoco di Vesta che c’è in me. “Fuoco di Vesta che fuor del tempio irrompe, / con ali e fiamme la giovinezza va. / Duce, Duce, chi non saprà morir? / Il giuramento chi mai rinnegherà?”». (Canta l’«inno dei giovani fascisti»).

È andato in viaggio di nozze?

«No, però sono andato a farmi sposare da Giorgio Bedeschi, primo sindaco leghista nella terra di Romano Prodi. Venerdì partenza, sabato matrimonio e

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