IMPEGNO, PROGRAMMI, FONDI PER GESTIRE L’IMMIGRAZIONE
Noi e l’africa Una vera politica migratoria richiede sforzi e adeguamenti organizzativi degli apparati pubblici Non basta e non serve polemizzare con Salvini
C aro direttore, è spontaneo, per chi crede negli ideali universalistici del costituzionalismo — per cui «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo) — esprimere dissenso e indignazione di fronte a certe manifestazioni di pensiero ed espressioni verbali del ministro dell’interno a proposito di migranti: manifestazioni ed espressioni in cui risuona un atteggiamento di chiusura ed egoismo nazionalistici, di rifiuto dell’«altro», dello «straniero», più che di vero e proprio razzismo (si tenga presente che il primo senatore nero è Toni Iwobi, eletto con la Lega; prima di lui erano stati eletti, alla Camera, due deputati del Partito democratico). Tuttavia, se si vuole dare sostanza politica alle proprie idee e alle proprie critiche, e parlare delle politiche migratorie (che non sono appannaggio del ministro dell’interno, ma spettano a Governo e Parlamento) non basta e non serve polemizzare con Salvini: occorre porre i problemi nella loro realtà e dimensione effettive, e chiarire che cosa occorrerebbe fare per affrontarli secondo linee conformi ai diritti umani e alla realtà storica.
Ciò significa non fermarsi al fenomeno degli sbarchi e dei salvataggi in mare. È infatti evidente che non siamo di fronte a naufragi occasionali, in presenza dei quali valgono le regole del diritto del mare (salvare le vite, porto sicuro più vicino ecc.), ma a un fenomeno di massa, epocale: la pressione di milioni di esseri umani che (ben al di là dei casi di profughi che possono chiedere asilo politico) aspirano a venire nelle nostre terre, più ospitali e ben più ricche di quelle di origine, dove le condizioni di sopravvivenza sono precarie. Questo fenomeno non si può né negare né esorcizzare: occorre governarlo al meglio, tenendo presenti i doveri di solidarietà umana e internazionale. Il che significa anzitutto — oltre che adottare interventi, necessariamente di lungo termine, di aiuto allo sviluppo dei Paesi africani — porre in essere leggi e misure che aprano le porte dei Paesi europei a una immigrazione legale.
Oggi di fatto cosa accade? Decine di migliaia di esseri umani, che nei propri Paesi di origine non trovano luoghi, gestiti dai Paesi europei, in cui rivolgere una domanda di immigrazione, pagano dei trafficanti, i quali organizzano il
Le decisioni non spettano al ministro dell’interno, ma al Governo e al Parlamento
trasferimento attraverso il deserto fino alla costa del Mediterraneo, e in Libia «organizzano» la traversata, contando che, una volta in mare, scatteranno i salvataggi e quindi ci penseranno le navi dei soccorritori a far sbarcare i migranti in Europa: dove questi potranno chiedere asilo come profughi, o protezione umanitaria, oppure accontentarsi di «sparire» sul territorio degli Stati europei come migranti irregolari. Si è visto fra l’altro come, mentre prima li imbarcavano in barconi più o meno scassati che potevano attraversare il Mediterraneo, oggi di fatto li caricano a centinaia su gommoni, tutti uguali, destinati a fare poca strada, fino alle navi dei soccorritori. Cercare di prevenire gli imbarchi contando sulle forze dell’ordine o sulle milizie libiche (o sulla guardia costiera libica, che per definizione opera perché i migranti restino o tornino in Libia, anche se salvati dal naufragio) non è il modo giusto per gestire seriamente il problema delle migrazioni. Il problema dei migranti trattenuti in Libia, in situazioni spesso disumane, dovrebbe a sua volta essere adeguatamente affrontato, magari potenziando (e finanziando) una maggiore presenza attiva delle agenzie Onu, e mettendoci almeno altrettanto impegno e mezzi quanti se ne impiegano, suppongo, per salvaguardare gli interessi petroliferi in Libia dei Paesi come il nostro.
Ma non è un modo giusto nemmeno consentire che resti in piedi un’organizzazione permanente che si limita a
Alternative Combattere il sistema degli sbarchi non può voler dire lasciar morire dei naufraghi in mare
soccorrere gli ospiti dei gommoni, lasciando che la partenza sia governata dai trafficanti che vi lucrano sopra, e limitandosi a trasferire i «naufraghi» sulle coste europee, salvo poi discutere in quali Paesi devono andare. Almeno nei secoli scorsi i migranti europei (quanti italiani!) verso l’america viaggiavano su navi sicure e sbarcavano a Ellis Island, dove le autorità americane gestivano le proprie politiche migratorie.
I «naufraghi» non chiedono solo di essere salvati, ma di lasciare la Libia per l’europa («pas Lybie!», invocava la donna salvata qualche giorno fa in mare).
Il Governo attuale ha dichiarato guerra al sistema degli sbarchi dei «naufraghi», e in questo non ha torto: anche se le navi delle Ong non erano (come certo non erano) «complici» degli scafisti, di fatto finivano per costituire un oggettivo contributo al mantenimento e allo sviluppo di quel sistema. Combattere il quale, naturalmente, non può voler dire lasciar morire dei naufraghi in mare. Alle istituzioni e ai Paesi europei si deve chiedere non solo di aprire i loro porti (che intanto pure è giusto), ma anche di cooperare per una politica di immigrazione; chiedere — come questo Governo sta facendo, e gliene va dato merito — una politica comune sui flussi migratori e l’asilo. Tutti i Paesi europei, e dunque anche l’italia, avrebbero il dovere di attivare canali legali di immigrazione controllata dall’africa. E noi dovremmo cominciare a dare l’esempio: quando avremo dai Paesi africani un numero di visti di ingresso legale per l’italia, rilasciati nei Paesi di origine, pari almeno a quelli di coloro che oggi vengono «accolti» come naufraghi, avremo inaugurato una seria politica migratoria.
Quanto ai migranti accolti in emergenza, essi non possono essere lasciati a se stessi, limitandosi a fornire loro un tetto e i pasti fino al compimento della procedura di richiesta di asilo o di protezione. Sarebbe necessario non solo distribuire opportunamente sul territorio la loro presenza, ma realizzare sistematicamente interventi diretti a conoscerne e valorizzarne la caratteristiche, le capacità e le aspirazioni, coinvolgendoli fin da subito in attività formative e in lavori socialmente utili, come alcuni Comuni fanno già, ma tutti dovrebbero fare, anche con mezzi assicurati dal Governo: evitando così che restino del tutto inattivi, o addirittura cadano preda di giri criminali. Tutto ciò richiede sforzi e adeguamenti organizzativi degli apparati pubblici, e risorse. Troppo difficile? Certo non facile, ma non per questo meno necessario.