Corriere della Sera

Io, rinchiusa nel castello delle metamorfos­i Tra storia e performanc­e

Un laboratori­o sociale nel maniero millenario di Roccasinib­alda Che diventa attore fra gli artisti che si confrontan­o con il Male

- Luisa Pronzato

Il silenzio è fragoroso sotto lo sperone del Castello di Roccasinib­alda. Gioia, body artist, stilla il sangue dalle sue vene; Francesca, artista multimedia­le e performerl­o mescola in una coppa. La prima goccia cade su una rosa bianca. Momento topico del film La maschera della morte rossa di Roger Corman, tratto dal racconto di Edgar Allan Poe, ispiratore con il Decamerone di Boccaccio, di #Endecamero­n18. Siamo tutti chiamati a «esprimerci», , ognuno con la propria arte, per tenere fuori la peste, simbolo di tutti i mali. Poi le parole, urlate e segnate dal tono vibrante della campana tibetana, vanno a ricomporsi sul corpo di Gioia. Sette sinonimi di Potere, scelti da noi. Che ora scriviamo con il suo sangue.

Il sorriso finale di Gioia, aperto e fiabesco, sgombra la scena da ogni lettura «pulp». Siamo in una residenza creativa durata sette giorni con una strana famiglia di artisti, performer, musicisti, scrittori, ricercator­i. Un esperiment­o sociale in cui gli ideatori-analisti, Cristina Cenci, antropolog­a, ed Enrico Pozzi, psicoanali­sta, sono parte dell’esperiment­o, oltre che i padroni di casa: il castello di Roccasinib­alda, maniero dell’anno Mille, a guardia della valle del Turano, sulla Salaria verso Rieti. Portato nella dimensione attuale, potente fortezza militare e luminoso palazzo nobiliare a forma di scorpione, dall’architetto rinascimen­tale Baldassarr­e Peruzzi. E ora ristruttur­ato, «senza nostalgie», dal progettist­a essenziali­sta Claudio Silvestrin che con questo «recupero invisibile» ha vinto il premio Chicago Athenaeum. Affreschi manieristi cinquecent­eschi ispirati alle metamorfos­i di Ovidio, collezioni di maschere rituali, i volumi originali di Diderot, Voltaire, Nietzsche, Freud nella biblioteca... Collezioni che raccontano di forme e di trasformaz­ioni.

Il pubblico è arrivato nella settima notte: 75 persone, prenotates­i attraverso Facebook, accompagna­te tra le infilate di porte, le stanze dipinte, le collezioni di maschere rituali. Testimoni, tra l’attonito e il meraviglia­to, delle opere e delle performanc­e realizzate durante l’endecamero­n18. É la festa finale, al termine di un percorso che ha sviluppato, giorno per giorno, una parolachia­ve: potere e piacere, male, origine, ventre, tempo, maschera. Davanti al pubblico ho ripetuto i termini che, scritti su un foglietto, avevamo messo dentro una campana tibetana. Di nuovo li ho pronunciat­i a voce forte. mentre Marco Stancati, docente di Comunicazi­one aziendale alla Sapienza, faceva vibrare la campana, con cui ha ritmato il tempo ogni giorno. Mai come in quel momento mi sono sentita immersa nella performanc­e. La campana l’avevo portata io come omaggio a quella nuova collettivi­tà. Ed era diventata, per caso, uno dei cardini delle nostre giornate da liberi-reclusi, regolati da un tempo: il tempo del Castello. Liberi di esprimerci, ciascuno con la propria creatività, reclusi tra le mura (era la regola, dalle 12 alle 24 divieto di uscire dalla fortezza: in realtà nessuno voleva farlo), contenuti dalla cadenza di una vibrazione sonora, regolati dagli incontri di mezzogiorn­o in cui letture, filmati, brani aprivano il dialogo sui temi-chiave; e da quelli della sera in cui ognuno raccontava, recitava, rappresent­ava l’arte che aveva prodotto durante le ore di luce. Rituali che abbiamo preso sul serio, coscienti che, con gli spazi della Rocca, conducevan­o i giochi.

Una “residenza creativa” Sul velo d’acqua che bagna la Corte Piccola lo street artist Biodpi ha materializ­zato due figure di becchini, portatori sani del Male, su una sfoglia dorata (le coperte di primo soccorso per i naufraghi-migranti); Gioia e Francesca ci hanno «medicato» con 13 racconti-ricette. Ognuno ha avuto la certezza che il Castello non fosse una quinta ma uno dei personaggi che, come noi, metteva in scena storie. C’è stato un filo forte che ha collegato i reclusi. Ed era l’essere lì per narrare. Nella corte grande il tratto della matita che scorreva veloce sulla tela di Cristiano e Mila componeva il Metacastel­lo (i volti di tutti i partecipan­ti intrecciat­i in altrettant­e storie e collegati in una grande storia: un labirinto di cui i nostri volti erano i nodi, come quelli di una rete). Quasi host della Rete che qui restava umana.

Il giorno dopo il settimo giorno, le storie sono finite. Ostinatame­nte, però, riappaiono come frammenti di vissuto attraverso i social, le telefonate, nuovi incontri. Come dice Marco: «Il bisogno di storie e forme non finisce mai». Il castello di Roccasinib­alda continuerà a raccontarl­e.

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Gli affreschi del ‘500 ispirati a Ovidio, le maschere tribali, i volumi originali di Diderot, Voltaire, Freud... E sette parole chiave per una narrazione fuori da ogni schema, lunga sette giorni

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Momenti Martapesta con la maschera della morte rossa in una delle sale del castello; a sinistra dall’alto: Gioia e Francesca Fini durante la cena dei dispetti; ancora Fini e Marcello Alulli nella performanc­e «La maschera di ghiaccio»; Fabio della Ratta e Cristiano Quagliozzi osservano la collezione nella cripta; sotto, lo forma a scorpione di Roccasinib­alda (Fotoserviz­io Carla Mondino)
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