Impegnati, uniti e sociali Il network degli chef attivisti
A Modena da Bottura la «finale» del Basque Culinary Prize Il premio a Jock Zonfrillo per il sostegno alle comunità aborigene
Nei corridoi del Collegio San Carlo di Modena, sede qualche giorno fa di un convegno di chef internazionali, lo hanno ripetuto tutti come un mantra: «Non diamo solo da mangiare alle persone ricche». Dopo anni in cui sono stati i protagonisti assoluti della scena gastronomica, venerati come le rockstar dell’alta cucina, ora i cuochi hanno cambiato ambizione. Vogliono fare gli attivisti. E irradiare con la loro fama ciò che hanno intorno: produttori, fornitori, territori.
Certo, i detrattori di questa svolta potrebbero sostenere che si tratti di un oculato riposizionamento, giusto prima che la bolla della chef-mania scoppi e si inflazioni. Ma la verità è che alla base del nuovo volto etico di questi professionisti c’è una consapevolezza: che il cibo non è solo cibo. È politica, agricoltura, ambiente, cultura, arte. E che non si può fare solo cucina elitaria, perché il pubblico del fine dining è una nicchia. Mentre là fuori ci sono milioni di persone che, molto banalmente, hanno bisogno di una guida per approcciarsi al cibo, o che di cibo non ne hanno, o che attraverso il cibo possono candidarsi a una vita migliore. I cuochi, insomma, hanno capito di avere una nuova responsabilità che va oltre il semplice piatto e che guarda alla collettività.
Ecco perché nel 2016 è nato il Basque Culinary World Prize, premio da centomila euro assegnato ogni anno dal Basque Culinary Center e dal governo basco a uno chef impegnato in un progetto che migliora la società attraverso la cucina. Quest’anno se l’è aggiudicato lo chef italo-scozzese di stanza ad Adelaide Jock Zonfrillo, 42 anni, da dieci impegnato con la sua «Orana Foundation» nella salvaguardia degli ingredienti nativi dell’australia e delle comunità aborigene. I giurati del premio si sono riuniti, per la prima volta, in Italia, a Modena, chiamati a raccolta dallo chefpadrone di casa Massimo Bottura, tre stelle Michelin con l’osteria Francescana e da poco rieletto primo ristorante al mondo dalla classifica «50 Best Restaurants». Assieme a lui a deliberare il verdetto c’erano il presidente della giuria Joan Roca, chef spagnolo tristellato, il decano della cucina peruviana Gaston Acurio, la cuoca franco-americana Dominique Crenn, lo chef basco Andoni Luis Aduriz e molti altri, tra cui la foodwriter americana Ruth Reichl e la storica della gastronomia inglese Bee Wilson.
«Dopo la nouvelle cuisine e il periodo tecno-emozionale ora siamo in una terza fase della cucina, quella umanista — ha sintetizzato Bottura dal palco del convegno «Trasformare la società attraverso la gastronomia» —. I cuochi devono partire dalla cultura, culinaria ma non solo, e rivedere a 360 gradi la loro missione base: ristorare la gente. Perché ristorare significa sì far star bene attraverso gusto e bellezza, ma anche recuperare sapori, spazi, persone». Bottura e la moglie Lara Gilmore lo fanno da tre anni con i Refettori, le mense sociali in giro per il mondo in cui i
d Siamo nella fase della cucina umanista, basata su accoglienza e cultura
grandi chef cucinano il cibo che altrimenti andrebbe sprecato. «Ma attenzione, la nuova gastronomia umanista non è solo solidale o caritatevole: è un progetto culturale a tutto tondo, che include arte, design, scienza, tecnologia. E in cui ciò che conta sono la qualità delle idee e l’accoglienza».
Una gastronomia del genere ha bisogno di reti, alleanze, politiche comuni. Ecco perché è sempre più facile vedere gli chef allontanarsi dalla competizione e avvicinarsi alla condivisione. Come a Modena. Dove tra una cena e un convegno, un salto al mercato locale e una festa in villa — «Maria Luigia», il casale di proprietà di Bottura nella campagna modenese che tra qualche mese diventerà un relais con 12 camere, giardino botanico e collezione di opere d’arte — le idee circolano, i produttori si mostrano, il territorio si svela e le sinergie nascono.
In fondo è cominciata così, con un’intuizione fortuita, anche l’avventura di Jock Zonfrillo, nonni paterni di Scauri (Latina), nonni materni scozzesi, emigrato in Australia nel 2000. «Un pomeriggio ho chiacchierato per quattro ore con un artista di strada aborigeno nel porto di Adelaide — racconta, in videochiamata dopo aver saputo di essere il vincitore del premio —. Quell’uomo mi ha raccontato che nel bush, dove viveva la sua tribù, c’erano ingredienti meravigliosi, dai semi di acacia alle formiche verdi, dal miele di limone al mirto aniciato. Ho capito che il mio destino era riscoprire il cibo nativo». Nel suo ristorante Orana usa da anni questi prodotti, e con l’omonima fondazione aiuta le comunità aborigene a coltivarli, classificarli e venderli. «L’ingrediente più interessante su cui lavoriamo è la secrezione dolce di alcuni pidocchi delle piante: uno zucchero alternativo, completamente naturale, che potrebbe rivoluzionare il concetto di dolcificazione». Se questo non è attivismo.