«Don Matteo», la serie a schema fisso che piace e tranquillizza
Ciclicamente, e soprattutto doverosamente, è giusto ragionare sul successo di «Don Matteo», la serie prodotta da Lux Vide, giunta all’undicesima stagione (Raiuno, giovedì, ore 21,25, in replica la decima stagione). L’idea di fondo è semplice ma efficace: con la scusa di obbedire alla sua vocazione e compiere la sua missione sacerdotale, il parroco don Matteo Rondini diventa detective (come «Padre Brown» di Chesterton, interpretato in Italia nel 1970 da Renato Rascel), e difensore degli innocenti accusati per errore.
Facile a dirsi, ma come fa «Don Matteo» ad aver un pubblico così trasversale da comprendere il pubblico femminile e anziano (il cosiddetto «zoccolo duro» di Raiuno) ma anche bambini, adolescenti?
Uno degli sceneggiatori, Mario Ruggeri, ha spiegato in un’intervista lo schema narrativo base di ogni puntata: si parte con il teaser, la scena di apertura in cui viene svelato un omicidio o un caso da risolvere, poi si passa all’inizio dell’indagine affidata ai Carabinieri. A quel punto s’individua un possibile colpevole e Don Matteo (Terence Hill) viene coinvolto nell’inchiesta anche per via del suo intuito fine e dei suoi gesti atletici. Il punto di svolta? L’immancabile «scena degli scacchi» tra il prete umbro e il maresciallo Cecchini (Nino Frassica), durante la quale emergono dubbi che portano a un punto di svolta e a scoprire il vero colpevole.
Questa ripetizione (questa rigidità narrativa) è diventata una specie di cerimonia laica dove non c’è mai violenza e spesso i toni di commedia concorrono a costruire un piccolo mondo antico, anticipazione terrena della giustizia divina: il male va estirpato affinché trionfi il bene. Se la Parola non basta si passa all’azione.
Così nessuno si chiede come mai nella parrocchia di Don Matteo si compiano così tanti delitti con preoccupante puntualità.