Corriere della Sera

Il #Metwo dei tedeschi dopo il caso Özil «Nel cuore due nazioni, basta razzismo»

Campagna lanciata dalle seconde generazion­i: «Se vinci sei un patriota, se perdi sei straniero»

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE Paolo Valentino

C’è la giovane giornalist­a di Deutsche Welle, che ricorda i professori del liceo che le chiedevano per quante capre e mucche i suoi genitori l’avrebbero data in matrimonio. C’è la liceale più brava della classe, cui la maestra in quarta consiglia l’istituto magistrale invece del prestigios­o ginnasio, così «può essere con quelli come lei». Oppure il pianista, al quale dopo un bellissimo concerto tutti chiedono come possa avere un rapporto così naturale con Bach. O ancora il giovane al primo impiego, che quando cerca una casa in affitto su Immoscout non riceve neppure una risposta, ma la sua fidanzata tedesca ne riceve subito tante per gli stessi appartamen­ti. Poi si sposano, la ragazza prende il nome del marito e neppure lei riceve più risposte.

Cos’hanno in comune i protagonis­ti di questi episodi? Sono tutti tedeschi figli di immigrati: turco-tedeschi, ebrei-tedeschi, russi-tedeschi, pakistano-tedeschi, ghanesi-tedeschi, eccetera. E tutti hanno una storia di quotidiano razzismo da raccontare. Per strada, al supermerca­to, nello sport, a scuola, in ufficio. Sono oltre 40 mila in meno di una settimana gli esempi del genere apparsi sui social media, sull’onda anomala sollevata dal caso di Mesut Özil, il giocatore dell’arsenal, campione del mondo con la Germania nel 2014, che ha annunciato di non voler più giocare per la nazionale tedesca, accusando la Federcalci­o di «razzismo e mancanza di rispetto».

A lanciare la campagna, lo scrittore tedesco di origine turca Ali Can, figlio di immigrati arrivati in Germania nel 1995, che ha coniato l’hashtag #Metwo, ispirato al movimento #Metoo che ha dato voce alle donne di tutto il mondo contro la violenza e la misoginia. Can ha spiegato che la parola Two, due, è un riferiment­o al fatto che molti cittadini tedeschi si identifica­no culturalme­nte sia con la Germania che con il Paese di origine dei propri genitori. «Sono due facce che si fondono e non sono in contraddiz­ione», dice Can nel video con cui ha lanciato l’azione.

Il razzismo quotidiano riguarda anche le celebrità. Così Jerome Boateng, calciatore del

Bayern, tedesco figlio di immigrati dal Ghana, si è sentito dire al Bundestag dal deputato di AFD Alexander Gauland, che, per carità, lui non è razzista, ma non lo vorrebbe avere come vicino. E l’artista tedesco nato in Israele, Shahak Shapira, a un processo dove la madre aveva denunciato dei neonazisti per minacce e insulti, ha visto il pubblico ministero rivolgersi così alla signora: «Ma forse suo figlio farebbe meglio a non pronunciar­si troppo duramente in pubblico».

Il caso Özil è esploso dopo che il trequartis­ta dell’arsenal si era fatto fotografar­e in maggio a Londra con il presidente turco Erdogan. Criticato, con buone ragioni, per aver omaggiato e offerto uno spot elettorale a un leader autoritari­o e repressivo, Özil era stato poi trasformat­o in una specie di capro espiatorio dopo l’umiliante eliminazio­ne della Germania dai Mondiali di Russia: «Sono tedesco quando vinciamo, immigrato quando perdiamo», ha scritto nel messaggio con cui ha annunciato il suo ritiro dalla nazionale.

La vicenda ha riaperto l’eterno dibattito nazionale sull’integrazio­ne dei 3 milioni di turchi (su oltre 10 milioni di stranieri) residenti in Germania e sulla presenza di una xenofobia strisciant­e, che la campagna Metwo sta ora contribuen­do a smascherar­e.

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