Corriere della Sera

L’ambiguità culturale del cattivismo (e i gesti utili)

- di Antonio Polito

Qualcosa è cambiato. Per quanto non esistano statistich­e ufficiali delle aggression­i motivate da «odio razziale», basta sfogliare le collezioni dei giornali per accorgersi che qualcosa è cambiato.

Negli anni passati, pur nel pieno di arrivi ben più massicci e caotici di stranieri, imparagona­bili ai numeri di oggi ormai sotto controllo, non si era registrata una tale frequenza di atti di violenza contro persone di etnia e colore di pelle diverso dal nostro. Sono episodi differenti tra loro, e solo la Giustizia potrà accertare i moventi e sanzionare i colpevoli. Ma tutti sarebbero difficili da immaginare se non si fosse ormai prodotto uno sdoganamen­to culturale della xenofobia.

Ecco una prova di quanto quel complesso di sentimenti, emozioni e senso comune che va sotto il nome di cultura popolare, possa condiziona­re i comportame­nti di una comunità. Le idee certe volte contano di più dei fatti. Ed è per questo che vanno maneggiate con cura.

L’idea nuova che circola in Italia da un po’ di tempo è il «cattivismo». Non si tratta solo del rovesciame­nto del vecchio «buonismo» della sinistra, basato sulla retorica secondo la quale i fenomeni migratori sono troppo grandi per essere governati, dunque non si può che accogliere chiunque e comunque arrivi. Una tesi che alla lunga ha prodotto l’effetto opposto, confermand­o le peggiori paure degli italiani: che cioè la Repubblica avesse rinunciato a ogni sovranità sulle proprie frontiere, e che il fenomeno fosse ormai fuori controllo. Salvini ne ha raccolto i frutti a piene mani.

Ma il «cattivismo» di cui ormai molti menano vanto (un giro su Twitter può essere istruttivo) è qualcosa di più: è la convinzion­e che sia in corso una «invasione» ostile e perfino organizzat­a, e che quindi esista una giustifica­zione morale, se non ancora giuridica, a difendersi. Alla guerra come alla guerra; e in guerra, si sa, pietà l’è morta.

Si può definirlo razzismo? No, in senso stretto. Perché non è (ancora) fondato sulla proclamazi­one della superiorit­à biologica e storica della nostra etnia. Ma sicurament­e genera forme di discrimina­zione razziale, secondo la definizion­e della Convenzion­e delle Nazioni Unite, che così definisce «ogni differenza, esclusione e restrizion­e della parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche». Di qui l’allarme per i tanti episodi di intolleran­za e di violenza. Non siamo per fortuna in Italia neanche lontanamen­te vicini ai livelli che i conflitti razziali hanno avuto e hanno tuttora altrove. Ma questo non vuol dire che, di imitazione in imitazione, non si possa raggiunger­e prima o poi la massa critica di «volenteros­i carnefici» necessaria per innescare una reazione a catena di punizioni e vendette. Meglio dunque agire prima che lamentarsi dopo.

Per questo ci eravamo permessi qualche tempo fa, dalle colonne di questo giornale, di suggerire al ministro dell’interno Matteo Salvini di non indulgere al «cattivismo», per quanti consensi gli abbia portato o gli possa portare. Nel ruolo istituzion­ale che oggi ricopre, e che gli consente di usare la forza coercitiva dello Stato, non si può fare propaganda politica, e si deve anzi produrre qualsiasi sforzo per scongiurar­e il rischio di conflitto tra italiani e non. Non solo perché lo Stato democratic­o difende l’incolumità e la dignità di chiunque, compresi gli immigrati. Ma anche perché l’esplodere di quel conflitto sarebbe il fallimento della promessa di «legge e ordine» che il titolare del Viminale ha fatto agli italiani.

Si può condurre con efficacia una politica di chiusura o di controllo dell’immigrazio­ne senza accettare alcuna discrimina­zione razziale. Paesi perfettame­nte democratic­i e liberali, come gli Usa, il Regno Unito, la Francia, l’australia, hanno di volta in volta nella loro storia aperto o chiuso le frontiere ai migranti, ma sempre vigilando con attenzione contro ogni rischio di scontro tra «nativi» e «newcomers», fino al punto di ricorrere anche

d Qualcosa è cambiato nel Paese per quanto non esistano statistich­e ufficiali sulle aggression­i a sfondo razziale

d Bisogna separare gli atti di violenza da ogni giustifica­zione sociale. Non ha senso ricordare i reati commessi dagli immigrati

a forme di discrimina­zione positiva: aiutando cioè gli ultimi arrivati a integrarsi scalando posizioni nel lavoro, negli studi, nell’amministra­zione pubblica.

A Salvini non si può chiedere tanto: la sua politica è «prima gli italiani». È una posizione legittima, purché tra gli italiani vengano annoverati anche coloro che lo sono senza essere nati da noi, come Daisy Osakue, la campioness­a di lancio del disco aggredita a Moncalieri e che vestirà l’azzurro agli Europei, sempre che il suo occhio guarisca. Ma al ministro dell’interno si può certamente chiedere di usare la sua popolarità e il suo consenso per spegnere i bollenti spiriti di alcuni nostri connaziona­li.

Innanzitut­to bisogna separare radicalmen­te gli atti di violenza a sfondo razziale da ogni pretesa giustifica­zione sociale. Di fronte al pestaggio di un ragazzo nero mentre sta lavorando, come il giovane cameriere di Partinico, non ha alcun senso ricordare che gli italiani sono esasperati per i reati commessi dagli immigrati. Tra le due cose non c’è nesso, ammesso che non si voglia suggerire che se ne può punire uno per educarne cento. Che poi è esattament­e ciò che venne in mente al «giustizier­e» di Macerata: se ne andò in giro a sparare a giovani neri innocenti per vendicare le colpe di tre spacciator­i nigeriani nell’orribile morte della povera Pamela.

Allo stesso modo il ministro potrebbe evitare di dare un sapore ideologico, o peggio ancora nostalgico, alla sua politica di contrasto dell’immigrazio­ne clandestin­a, fenomeno tra l’altro in calo proprio grazie alla sua azione di governo. Con il linguaggio del corpo e delle T-shirt che maneggia con assoluta maestria, il ministro ci ha fatto sapere in questi giorni che ama avere molti nemici perché questo gli dà molto onore, o che l’«offesa è la migliore difesa». Mai una volta che gli venga l’idea di esibire una scritta con una frase del Vangelo tipo «beati gli operatori di pace», o un articolo della Costituzio­ne che «riconosce e garantisce i diritti inviolabil­i dell’uomo»?

Avrebbe un grande valore se il ministro dell’interno, uomo del tutto al riparo da ogni sospetto di buonismo, magari di ritorno da una visita ai bagnasciug­a sui quali ferma sbarchi e «vu cumprà», si facesse un giorno fotografar­e al capezzale di un immigrato vittima di un’aggression­e a sfondo razziale. Sarebbe un testimonia­l straordina­rio di una Repubblica che sa essere severa con ogni illegalità, e giusta con tutte le vittime dell’illegalità.

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