Corriere della Sera

Hockey, velo e sogni Le sei sorelle Azmi conquistan­o il Canada (e sfidano i pregiudizi)

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«Il problema non è stato iniziare a correre. Il problema è che non riusciamo più a smettere». E chi le ferma più le Azmi Sisters, stelle dell’hockey su prato canadese. Asiyah, 25 anni, Nuha, 23, Husnah, 21, Sajidah, 18, Haleemah, 17, e Mubeenah, 14. Nessuna ha raggiunto ancora i livelli più alti del campionato. Ma i commentato­ri sportivi dell’ontario non hanno dubbi: «È solo questione di tempo».

La storia delle Azmi, come ha raccontato il New York Times, inizia quando papà Shaheen arriva in Canada dal Pakistan. È il 1967 ma ha già un sogno in testa per i suoi nove figli, maschi e femmine che siano: farli diventare campioni dello sport più amato nella sua nuova patria. Niente ghiaccio però, l’iscrizione ai corsi è troppo costosa. Così papà Shaheen ripiega sul prato. Ma non solo. Sgobba, studia (un dottorato in scienze sociali), trova lavoro alla Human Rights Commission dell’ontario. E si guarda bene dal vietare alle sue figlie di fare sport.

Lo sforzo viene ripagato due volte. Primo perché le loro ragazze, tutte nate e cresciute in Canada, orgoglio di papà tifoso dei Maple Leafs, sono entrate nelle due squadre della lega femminile, il Red Team nella divisione East e il White Team in quella West. E secondo perché, pur dovendo indossare maschere, ginocchier­e e paradenti, le sorelle Azmi non hanno pensato nemmeno per un secondo di tradire le loro origini e indossano l’hijab anche in campo. «Nessuno l’ha mai visto come un problema. Anzi quando dovevano osservare il Ramadan, il mese di digiuno sacro per la regione musulmana, abbiamo programmat­o le partite dopo il tramonto per permettere loro di rifocillar­si e non scendere in campo a stomaco vuoto», spiega al Corriere Beth Brothersto­ne, presidente della Lega e allenatric­e delle ragazze. Rispetto, dunque. Anche da parte delle avversarie, che mai si sognerebbe­ro di insultarle in quanto «diverse»: perché le sorelle sì «sono dolci e simpatiche» ma hanno anche «tonnellate di energie e grinta da vendere».

Niente solennità. Niente celebrazio­ni retoriche: le Azmi corrono perché hanno voglia di farlo. E quando la veterana dell’hockey femminile canadese, Hayley Wickenheis­er, vincitrice di quattro ori olimpici, si è collegata con loro da Pyeongchan­g durante le Olimpiadi invernali, loro hanno iniziato a saltellare felici.

Già, perché queste sei atlete non vanno guardate solo come il simbolo di un’integrazio­ne che smentisce chi parla di «invasioni». In ballo c’è anche una medaglia per la parità di genere. Perché se i musulmani in Canada sono oltre un milione, di cui 400 mila solo nell’aerea di Toronto, mentre i rifugiati (maschi) si danno per lo più al calcio e al basket, alle ragazze non sempre viene concesso di praticare sport. E che sia l’etica o gli sponsor — Nike ha avviato una campagna mondiale per la promozione dello sport femminile tra le donne musulmane —, anche l’hockey su prato ha segnato la sua rete, portando a 200 il numero di ragazze (musulmane e non) iscritte in lega.

Avanti con la corsa. A sostenere le giovani Azmi, c’è pure mamma Fara, originaria della Guyana, che non si perde mai una partita. Ed è stata lei a insegnare alle figlie che di fronte agli insulti e alle prepotenze non si abbassa mai la testa. «Via Facebook ci sono arrivati attacchi e frasi di odio — ha raccontato Nuha — ma noi non ce ne siamo mai preoccupat­e. Hanno paura di noi».

Niente ostacoli, niente barriere, niente muri. Parola di chi le allena anche sul campo: «A certi politici farebbe davvero bene vederle giocare». Tutte in squadra

Da sinistra, Mubeenah Azmi, 14 anni, Haleemah, 17, Husnah, 21, Sajidah, 18, Nuha, 23 e Asiyah, 25, nel giardino della loro casa a Toronto, in Canada. Le sorelle giocano in due squadre di hockey su prato femminile e sono diventate un simbolo di integrazio­ne (Marta Iwanek)

Alla pari

Anche le avversarie le rispettano e non si sognerebbe­ro mai di insultarle

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