Le polaroid di Wim Wenders
Gli scatti imperfetti del regista tedesco «Voglio registrare quello che vedo e sento»
Dal vasto archivio di Wim Wenders riaffiorano alcune polaroid. Fotografie che risalgono al periodo americano. In particolare, agli anni Settanta: quando il cineasta si trasferisce negli Stati Uniti, dove ambienterà La lettera scarlatta, la celebre «trilogia della strada» (Alice nelle città, Falso movimento e Nel corso del tempo) e lo struggente L’amico americano.
Le immagini (esposte ora in una galleria berlinese) evocano quel periodo. Si tratta di appunti visivi imperfetti, inesatti, spesso incompiuti, che possono essere interpretati come tessere di un vasto mosaico. Ne è autore un fotografo-viandante, che concepisce la pratica fotografica come una forma differita di scrittura. La macchina fotografica, per lui, è un dispositivo indispensabile, per catturare volti, situazioni, barlumi, oggetti, dettagli di paesaggi per lo più disabitati. Essa, ha detto, è «parte vitale di ogni viaggio, come l’automobile o l’aeroplano». È come una lente di ingrandimento posata su frammenti di mondo. Ma è anche un apparato che serve per conservare quel che è accaduto solo una volta: e non potrà mai più ripetersi allo ante litteram, è stato scattato nel 1975. Le polaroid risalgono al suo periodo americano, dopo che il cineasta si trasferì negli Stati Uniti stesso modo. La sfida: fermare quello che i greci amavano definire il «kairòs» (il momento esatto). Rendere eterno quel che è destinato a essere assorbito dal «divenire del tempo».
Le intenzioni sottese a queste scelte rivelano assonanze e differenze con l’esperienza cinematografica. Il cineasta usa l’immagine per elaborare trame, drammaturgie; e opera sempre in dialogo con tanti collaboratori. Il fotografo si muove in maniera diversa. Può abbandonarsi a un esercizio solitario. «Mi sento libero. Non ho storie in mente. Anzi, cerco di essere vuoto. Voglio farmi «cogliere» dagli spazi dove mi reco. Se non si è soli, è impossibile acquisire quel determinato dettaglio, che ti permette di essere totalmente immerso in ciò che hai di fronte a te, senza filtri», ha spiegato Wenders.
Inoltre, mentre un film è un collage di frames, una foto è un istante unico e assoluto, che non necessita di niente al di fuori di sé, capace di tenere insieme ciò che è adesso insieme con il passato e il futuro. Infine, se il regista può trasformare le città in veri personaggi, il fotografo deve limitarsi ad aderire al reale, che può solo filtrare attraverso l’obiettivo: il suo mirino. Diversamente da un cineasta, egli celebra non la durata, ma l’attimo irripetibile. Un attimo che viene assunto, e trasferito subito nella memoria. Un dettaglio che è ritagliato dalla continuità del fluire della vita, in modo da acquistare autonomia.
Per pronunciare le forme del presente, il fotografo, per Wenders, non deve comportarsi come un cameramen. Non esibire nessuna autorialità. Ma essere un ricettore di situazioni vere. Riuscire a dimenticare se stesso, proponendo scatti che siano meravigliosamente «anonimi». In una lunga conversazione di qualche anno fa, Wenders ci ha detto: «Voglio registrare quello che vedo e sento. Dialogo con i luoghi, e con le atmosfere che mi trasmettono. Mi piace attendere le fasi di sviluppo delle immagini. Per questo, non amo il digitale. Che rompe questa sospensione. Consente di controllare subito cosa hai fatto. Elimina ogni incanto».
Quell’incanto attraversa le nuove pagine del diario americano wendersiano, il cui ideale epilogo sarà rappresentato dal reportage sull’11 settembre.
Lo strumento
«La macchina fotografica è parte vitale di ogni viaggio, come l’auto o l’aereo»
● Tra gli anni 70 e 80 però il cineasta realizzò una grossa quantità di scatti utilizzando una macchina fotografica Polaroid: 240 di queste immagini sono ora esposte nella mostra «Wim Wenders. Instant Stories» alla C/O Berlin Foundation di Berlino, fino al 23 settembre