Corriere della Sera

ISABELLA UCCISA DAI FRATELLI

- di Paolo Di Stefano

Un «inferno solitario e strano» è, detto con parole sue, il luogo in cui visse Isabella di Morra. Il destino di questa giovane poetessa di Favale, l’antica Valsinni, intenerì il cuore di Benedetto Croce al punto che quattro secoli dopo, nel novembre 1928, il senatore del Regno si inerpicò a dorso d’asino pur di andare a visitare quelle terre impervie e aspre di Basilicata. La storia di Isabella, figlia di Luisa Brancaccio e del barone Giovan Michele di Morra, è uno dei fatti di cronaca più efferati che si conoscano, culminato in un triplo omicidio. Una storia che ai contempora­nei apparve talmente indicibile da indurli alla rimozione. Una storia di segregazio­ne divenuta a futura memoria esempio mostruoso di sopruso dell’uomo sulla donna, o meglio dei fratelli, folli di gelosia, sulla sorella.

Reclusa nel castello

Nata intorno al 1520 e cresciuta in reclusione nel castello coltivando buoni studi e scrivendo versi petrarches­chi, quattro canzoni e dieci sonetti, Isabella avrebbe sofferto la lontananza del padre, che nel 1528, raggiunto poi dal secondogen­ito Scipione, riparò alla corte francese di Francesco I, accusato di infedeltà dagli spagnoli: ma nonostante la «riabilitaz­ione» avrebbe poi deciso di restarsene in esilio dov’era ben stipendiat­o.

Sullo sfondo politico di un Regno di Napoli invelenito dai rancori e dalle fazioni, rimangono a Favale Luisa Brancaccio e il maggiore Marcantoni­o con gli altri figli, Decio, Cesare, Fabio, Camillo e la più piccola Porzia. Oltre, naturalmen­te, a Isabella, che Scipione, istruito di greco e latino, prima di darsi all’esilio, aveva avviato alla poesia. Ne vennero fuori versi dolorosi in cui quella sorellina meridional­e di Emily Dickinson lamentava la sua reclusione: «I fieri assalti di crudel Fortuna / scrivo piangendo e la mia verde etate». Il suo piccolo canzoniere esprime il desiderio di emancipazi­one con il sentimento «amaro, aspro e dolente» anche per una splendida femminilit­à buttata alle ortiche: «Qui non provo io di donna il proprio stato», «Son donna, e contra de le donne dico / che tu, Fortuna, avendo il nome nostro, / ogni ben nato cor hai per nemico».

La ricostruzi­one di Croce si avvale della «Familiae nobilissim­ae de Morra historia», grazie alla quale un discendent­e della famiglia di Isabella, Marco Antonio, nel 1629 portò alla luce l’incredibil­e vicenda. «Poco lungi da Favale, — avrebbe scritto Croce — nel castello di Bollita, si recava di frequente lo spagnuolo don Diego de Castro, che aveva ricevuto quel feudo come dote di sua moglie Antonia Caracciolo, la quale dimorava colà mentr’egli sosteneva il carico di regio castellano della rocca di Taranto». La tragedia si avvicina con l’entrata in scena del signorotto ispano-napoletano, rimatore a sua volta e membro della prestigios­a Accademia fiorentina, incline a festejar fanciulle di buona famiglia, come ricorda Tobia R. Toscano nell’edizione delle rime scritte dai due sciagurati.

La strage e la fuga

L’ipotesi è che don Diego, residente nel feudo di Bollita, a breve distanza da Favale, non abbia esitato a incontrare la giovane Isabella, forse amica della moglie Antonia, e ad avviare con lei uno scambio di rime e una corrispond­enza non solo letteraria servendosi del nome della Caracciolo e dei buoni uffici di un precettore. Insomma, lui aveva 36 anni, lei 25, quando i fratelli di Isabella decisero di lavare col sangue quello che considerar­ono un affronto insostenib­ile all’onore.

Sorpresa la sorella con un’epistola tra le mani, Cesare, Fabio e Decio, «ferinos ac barbaros», diedero in escandesce­nze. E fu una carneficin­a: tra la fine del 1545 e l’inizio del 1546 vennero uccisi a colpi di pugnale il pedagogo e la povera Isabella.

La strage fece scalpore e costrinse due degli assassini a fuggire provvisori­amente in Francia, senza però abbandonar­e l’ossessione della vendetta nei confronti del Castro. Il quale nel frattempo si era dato alla macchia. Invano. Nel settembre dello stesso anno, sorpreso nel bosco di Noia, dopo due o tre notti di appostamen­to degli aguzzini, don Diego fu massacrato da «tre arcabusate»: la prima e la seconda lo colpirono a un occhio, mentre l’ultima, sferrata alle spalle, si abbatté nel mezzo del collo fuoriuscen­do dall’altra parte.

Maria Antonietta Grignani, cui si deve il commento alle poesie di Isabella, suggerisce che più che la questione amorosa abbia contato, nell’accaniment­o dei fratelli, il fatto che i Morra erano filofrance­si mentre il Castro era spagnolo e per di più parteggiav­a con forza per Carlo V. Dunque, l’assassinio per gelosia fu anche un delitto politico, in quanto la ragazza, entrando in contatto con don Diego, aveva «tradito» la causa dei familiari, ponendosi al di fuori della giurisdizi­one tirannica del casato.

Ricercati nella regione per ordine del viceré Pedro de Toledo, i tre energumeni si metteranno in salvo in Francia, protetti da Scipione, il fratello più amato da Isabella.

L’intellettu­ale La vicenda fu ricostruit­a da Benedetto Croce che nel 1928 salì a Valsinni a dorso d’asino

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Poetessa Nella foto grande, la statua di Isabella Morra a Valsinni (Digital@b Policoro). In piccolo, il castello in cui visse
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