Le notti a Washington per comprare Chrysler E Marchionne conquistò la fiducia di Obama
Washington, fine marzo del 2009. È quasi notte. Negli uffici del dipartimento del Tesoro la giornata è trascorsa a discutere i dettagli economici e legali dell’acquisizione della Chrysler da parte della Fiat, che a distanza di pochi giorni sarà annunciata dal presidente degli Stati Uniti.
La task force dell’auto e gli uomini di Marchionne. Funzionari del Tesoro e avvocati, banchieri e dirigenti italiani. Ormai è tardi. Ci si alza dal tavolo. Dalla stanza escono per primi i funzionari del Tesoro. Sono vestiti come dei finanzieri di Wall Street e hanno la stessa disattenta energia dei Masters of the Universe, i «Padroni dell’universo» raccontati da Tom Wolfe.
Nel corridoio la luce è artificiale. L’inserviente nero sta pulendo l’enorme corridoio del dipartimento con uno spazzolone. I funzionari del Tesoro non ci fanno caso, avanzano e camminano sulla parte già sistemata. Subito dopo esce dalla stanza Marchionne. Marchionne si ferma e dice all’uomo delle pulizie: «Sir, excuse me, I’m spoiling your job». Signore, mi scusi, sto rovinando il suo lavoro. E l’inserviente risponde: «Don’t worry, man...». Non ti preoccupare, amico.
L’uomo delle pulizie è nero come il presidente degli Stati Uniti. Marchionne è figlio di Concezio Marchionne e Maria Zuccon. Nei mesi precedenti Barack Obama gli ha concesso credito e, nonostante la pessima reputazione della Fiat negli Stati Uniti, non ha disdegnato l’ipotesi di coinvolgere il marchio italiano nel salvataggio della Chrysler. La più piccola delle Big Three. Quella nelle condizioni peggiori. La candidata naturale a essere assorbita da uno degli altri due produttori di Detroit.
(...) Obama deve evitare che la crisi dell’auto si trasformi in un buco nero. E sta elaborando un’idea di politica industriale basata sulla reindustrializzazione leggera degli Stati Uniti. Dunque, trova interessanti — nei colloqui con Marchionne — le tecnologie a basso consumo e a basso impatto ambientale che costituiscono una delle risorse principali della Fiat.
(...) Le due traiettorie — quella dell’impresa e quella della politica — si incontrano nel campo disastrato dell’auto. (...) Nella triangolazione fra politica, società e impresa, la fiducia conquistata da Marchionne presso Obama è fondamentale. Il risultato è l’accordo che permette al gruppo Fiat di acquisire la posizione di principale socio industriale di Chrysler, con la prospettiva di assumerne il controllo.
(...) L’industria e la politica, le banche e il sindacato. Il potere e i soldi, gli uomini in carne e ossa e le loro famiglie. In questa storia uno dei giorni più importanti è il 30 aprile 2009, quando viene annunciato l’accordo da cui tutto nasce. Dice, in quella occasione, Barack Obama: «Sono lieto di annunciare che Chrysler e Fiat hanno raggiunto un accordo di partnership. Con la Fiat la Chrysler può non solo sopravvivere, ma può prosperare». È il mezzogiorno in punto di un giovedì che cambia la vicenda dell’auto americana. (...) «Fiat ha dimostrato di sapere produrre auto efficienti e pulite che sono il futuro del settore» dice il presidente «e adesso si è impegnata a trasferire miliardi di dollari di tecnologia di avanguardia per aiutare Chrysler a fare lo stesso».
(...) In molti hanno scommesso che la Chrysler sarebbe fallita. Cosa che, invece, la politica americana ha impedito. Obama ha parole dure, quasi violente: «Sto con i dipendenti, con il management, con le comunità afflitte dalla crisi dell’auto. Non con un drappello di hedge fund e di società di investimento che mette in pericolo il futuro dell’azienda».
Dunque, l’acquisizione di Chrysler da parte di Fiat non è soltanto una operazione industriale e di finanza di impresa. Ha anche una componente politica e culturale rilevante, perché rappresenta un punto di rottura fra una parte della élite democratica americana, che teorizza il back to manufacturing — il ritorno alla manifattura — come valida possibilità di ridare lavoro e stabilità sociale a un Paese scosso nel profondo da quasi dieci anni di crisi finanziarie, e quella Wall Street che, dopo avere a lungo predicato la perfetta efficienza dei mercati (in particolare finanziari), pratica la distinzione fra il denaro e la realtà, le scelte individuali e gli effetti generali.
Scelta di campo
Obama ha parole dure: «Sto con i dipendenti, con le comunità afflitte dalla crisi. Non con gli hedge fund che mettono a rischio Chrysler»