Corriere della Sera

Mi emoziono per una puntina

Marcello Morandini si racconta. E a marzo inaugura il suo museo, nel centro di Varese

- di Flavio Vanetti

VARESE «Sarà uno spazio nuovo per la città; sarà, soprattutt­o, un’occasione per tutti. Sono fiducioso e, alla fine, contento». Marcello Morandini in autunno vedrà completata la ristruttur­azione della villa in via Staurenghi, nel centro di Varese, che ospiterà il suo museo. Finalmente una delle figure più poliedrich­e della nostra arte — architetto, scultore e designer — potrà dare una casa adeguata a una produzione straordina­ria, spesso però apprezzata più all’estero che in Italia.

La sua stessa Varese, incontrata all’età di sette anni dopo essere nato a Mantova, ha consumato un obbrobrio nei suoi confronti: una bellissima piazza progettata da lui è tuttora in stato di abbandono perché di mezzo c’è una proprietà che è privata e non pubblica. Davvero il pubblico non può forzare il privato per evitare uno scempio? Morandini allarga le braccia, sorride. Avrebbe da dire qualcosa di pepato (e il carattere per farlo non gli mancherebb­e) ma preferisce la diplomazia, tornando su sé stesso, sul racconto di un percorso artistico che approda a un museo la cui gestazione non è stata affatto semplice: «La svolta sta nel fatto che alcune fondazioni hanno dato una mano alla mia. Per la fase iniziale è sufficient­e, ma non basta per quanto dovrà seguire: dialogare con chi amministra la res publica sarà decisivo». Non a caso lo Spazio Morandini, la cui apertura avverrà l’11 marzo 2019 («Tra il termine del restauro e l’inizio delle attività ci sarà ancora parecchio lavoro»), si colloca a ridosso del Teatro Santuccio — regolato dall’amministra­zione civica — e a duecento metri in linea d’aria da Palazzo Estense, oggi sede comunale ma già dimora di Maria Teresa d’austria, alla quale Varese deve il catasto e le prime, importanti opere di urbanizzaz­ione. «Il luogo lancia un messaggio: con molta discrezion­e, ma con altrettant­a convinzion­e, conto di avviare un motore culturale nel cuore della città».

Morandini, a lei, signore del bianco e del nero, domandiamo: il mondo è bianco o è nero?

«È a colori. Per fortuna: siamo parte della Natura e grazie a Dio abbiamo questo beneficio. Però, in certi casi, alcuni colori sono più valorizzat­i e utilizzati, magari per chiarire meglio il proprio profilo profession­ale».

Quindi anche l’arte è a colori?

«Certo, l’arte è soprattutt­o a colori».

Il bianco e il nero — lei sostiene — nella loro essenziali­tà consentono di concentrar­si sulla forma più che sull’estetica.

«Sì, bianco e nero sono realtà molto precise. Si scrive, ad esempio, nero su bianco e guardate quante informazio­ni otteniamo. Non è necessario scrivere a colori, si perderebbe­ro la concentraz­ione e il senso di ciò che si vuole dire».

La sua geometria appare «dinamica».

«Le forme suggerisco­no messaggi infiniti. Io provo a scoprire il movimento della geometria e tutto quello che è nascosto al suo interno». È vero che il design è architettu­ra?

«Il design è l’architettu­ra delle cose che usiamo ogni giorno. Fondamenta­lmente ogni oggetto dovrebbe essere armonico. Penso alle sedie, ai tavoli, alle posate, alle

auto. Design è estetica abbinata alla funzione, nel rispetto dei sensi. Un esempio: una forchetta deve poter essere usata bene e deve funzionare senza che si sappia che è anche un oggetto di design». Come è cominciato il suo viaggio nell’arte?

«Per caso, come grafico-designer. Aiutavo Angelo Fronzoni, a Milano, alla sera: guadagnavo qualche soldo in più rispetto allo stipendio che avevo di giorno. Gli facevo tutti i definitivi, che poi mostrava ai clienti. Per lui la grafica era la base della comunicazi­one. Ho imparato che per comunicare con gli altri non bisogna essere complicati: basta trasmetter­e in modo corretto e rispettoso ciò che si intende dire. Per me è stata una grande lezione che ho poi sviluppato quando ho aperto il mio studio. Fin dall’inizio mi sono dedicato alla ricerca delle forme: nel disegno, poi con i modelli in cartoncino e infine con lavori in legno verniciato o in altri materiali».

È più designer, scultore o architetto?

«Mi considero fortunato perché riesco a fondere le tre realtà. Se ne tralascias­si una, farei un torto alle altre. Però negli ultimi anni sono più orientato verso l’arte e la ricerca della forma pura. La vita è la conoscenza delle cose, dunque della forma, ma l’uso che si fa della forma diventa design. Dal conoscere una cosa all’usarla, e infine all’abitarla, il passo è breve. Ecco che l’approdo è l’architettu­ra: io non vedo divisioni tra questi tre mondi». Perché la scelta di lavorare spesso in Germania?

«Si lavora in un mondo aperto, ogni città ha più musei, ciascuno con una precisa realtà culturale che accetta e promuove culture diverse. Io ho sempre trovato la strada aperta per il mio lavoro: a Ludwigshaf­en, in 20 anni, lo stesso museo mi ha dedicato tre mostre ufficiali: deduco che non si siano sbagliati, più facile che abbiano creduto nel mio lavoro e nella mia profession­alità».

L’italia si è curata poco di lei?

«Assolutame­nte sì». Nemo propheta in patria…

«I motivi sono stati politici, a causa del Sessantott­o. Fin lì avevo avuto grande successo; nel 1967, a tre anni dall’inizio della mia carriera, avevo partecipat­o alla Biennale di San Paolo del Brasile. Quindi nel 1968, appena ventottenn­e, fui invitato a Venezia. Ero uno dei 22 italiani ed ero il più giovane. Fu l’anno della contestazi­one, delle cariche della Polizia. Non fui più invitato perché non avevo criticato quella Biennale. Non sono stato dichiarata­mente uno di sinistra che contestava: detesto ogni forma di protesta. A causa dell’ostracismo, ho accettato l’invito di un gallerista svizzero che mi ha introdotto in Germania». È mancato da poco Gillo Dorfles, un suo mentore.

«Era uno dei commissari della Biennale. Era stato lui a invitarmi a San Paolo. E ancora prima ero stato invitato da lui e da Umbrio Apollonio, capo dell’archivio storico, a rappresent­are l’italia in Austria con altri artisti. Dorfles mi seguì fin dall’inizio con affetto: era un amico ed è stato un grande uomo, importante per l’italia». Lei è spesso all’estero. Come vedono l’italia gli stranieri?

«A settori. Gli elementi dominanti sono due: l’italia che non funziona da un lato, il grande rispetto per il nostro Paese dall’altro. Devo dire che predomina il secondo. C’è rispetto per l’italia, per gli italiani che risolvono i problemi pur nelle difficoltà. E c’è ammirazion­e per le tante personalit­à che esprimiamo: ce le invidiano. Nell’arte siamo stati primi, grazie al nostro passato;

Capolavori quotidiani «In un dischetto di metallo pieghi un triangolin­o e ottieni qualcosa che funziona in maniera fantastica. Questo è design»

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In alto, 119 (1971, legno laccato) e, a destra, Marcello Morandini. Qui sopra, due sculture del 2003

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