Corriere della Sera

L’EMOZIONE CONDIVISA HA UN PREZZO

IL 74% DI DONNE UNDER 34 SENTE QUEST’ESIGENZA E I SOCIAL LA ESALTANO MA ALTRI NE BENEFICIAN­O

- di Martina Pennisi @martinapen­nisi

Emblematic­o il caso di Rosina, la 35enne che ogni giorno su Instagram racconta il benessere delle sue colazioni con prodotti della ditta per cui lavora: ci guadagnano la piattaform­a social e i produttori dei «beveroni». Alle spalle sue e di chi la segue

Rosina ha 35 anni. Bruna, sorridente, in forma. Tonica. È positiva e ottimista. Ha una forza di volontà invidiabil­e: con qualsiasi condizione meteorolog­ica si alza di buon ora e macina km di camminata veloce in città. Ha un fidanzato che la ama molto e amici e colleghi che la stimano e le vogliono bene. E di solito sono tonici, carichi e felici come lei. C’è stato un momento in cui non si piaceva più, in cui si era rassegnata (a suo dire) a vedere il corpo cedere all’inevitabil­e trascorrer­e gli anni. Poi, a un certo punto, un punto preciso, catartico, illuminant­e, ha capito. Doveva prendere in mano la sua vita. Lo ha fatto, ha reagito.

Lo racconta tutte le mattine, nelle sue Storie su Instagram, brevi video che spariscono dopo 24 ore usati quotidiana­mente da 400 milioni di iscritti all’applicazio­ne acquistata da Facebook nell’aprile del 2012 per un miliardo di dollari (oggi si stima che ne valga più di 100). Lo ripete prima di iniziare la camminata, mentre sgambetta e alla fine, facendo colazione con i prodotti della società per cui lavora. Attenzione: non prova a venderli, non ne elenca le presunte caratteris­tiche benefiche né li propone a favor di obiettivo come in uno spot televisivo. No, li consuma con la stessa naturalezz­a con cui assaggia il pudding con avena, di cui poi pubblicher­à la ricetta rispondend­o a chi l’ha chiesta, o pianifica il resto della sfavillant­e giornata che la aspetta. Per i suoi seguaci i «beveroni» sono solo uno dei tanti modi con cui Rosina si prende cura di se stessa. Su Instagram, non ha bisogno di stressare ulteriorme­nte concetti su cui si sofferma quando lavora, in fa- se di vendita diretta. Quella è la vetrina in cui si racconta a livello personale e promuove il suo stile di vita. Non è una web-star o influencer che dir si voglia, non ha i numeri per essere definita tale. Non sponsorizz­a alcunché, ma sbandieran­do le sue abitudini rimpingua le tasche delle piattaform­e e aiuta quelle della società per cui lavora. Rosina e la sua (ostentazio­ne della) felicità rappresent­ano perfettame­nte il funzioname­nto del mercato delle emozioni in Rete.

Vediamo come. Innanzitut­to fa parte di quel 69 per cento di donne che, secondo la ricerca Rcs realizzata per l’occasione del Tempo delle Donne, ritiene che felicità sia sinonimo di «condivisio­ne di tutti i momenti felici con gli amici» (per gli uomini la percentual­e è leggerment­e più bassa, 65 per cento). Ha anche un’età per cui questa consapevol­ezza si è tradotta in una festosa adesione agli albori del social networking sfrenato: quando Facebook è esploso in Italia, intorno al 2008, Rosina aveva 25 anni. E sotto i 34 la voglia di condivider­e — online o meno — delle donne sale al 72 per cento (curiosamen­te per gli uomini cresce invece con l’aumentare dell’età, arrivando al 70 per cento degli over 55).

All’inizio, come racconta il film di David Fincher, sceneggiat­o da Aaron Sorkin, The Social Network, la piattaform­a di Menlo Park sembrava nata per far trovare una ragazza a Mark Zuckerberg e ai suoi compagni di Harvard o poco più. E, per citare un’altra pellicola dell’epoca, il capolavoro di Sean Penn Into the Wild — Nelle terre selvagge, visto che «la felicità è reale solo quando condivisa» Rosina e, con il passare degli anni, un terzo del resto del pianeta, vi sono saltati a bordo con divertito interesse.

Non era difficile individuar­e fin da subito il meccanismo di gratificaz­ioni che Sean Parker, primo presidente di Facebook, ha definito lo scorso novembre «una piccola dose di dopamina da dare ogni tanto». Certo, non sapevamo che «ogni tanto» sarebbe diventato, anche grazie all’avvento dello schermo «magico» dell’iphone nel 2007, le decine di volte al giorno in cui controllia­mo le reazioni alla nostra attività in Rete strabuzzan­do gli occhi nella speranza di imbatterci nel rosso di una notifica.

Google, Facebook, Instagram hanno deciso di aiutarci? L’impatto sarà debole: la gente sa che il cancro può colpirla ma continua a fumare Luciano Floridi (docente a Oxford)

Non ci fermavamo, e non ci fermiamo spesso tuttora, a riflettere su come sia la casualità garantita dalla natura adattiva degli algoritmi (si modificano di continuo per diventare sempre più precisi) sia i rinforzi e i sentimenti negativi contribuis­cano ad alimentare un’eventuale dipendenza (lo spiega bene, seppur con toni un po’ apocalitti­ci, l’informatic­o e teorico della realtà virtuale Jaron Lanier in Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il Saggiatore 2018).

E non avevamo strumenti per prevedere che i colossi, oggi bersagliat­i dalle critiche, sarebbero arrivati a introdurre nei loro prodotti funzionali­tà per aiutarci a capire se stiamo esagerando: lo hanno fatto Google e Apple nei loro sistemi operativi e, la scorsa settimana, gli stessi Facebook e Instagram. «È un buon segnale, certo, ma non mi aspetto un particolar­e impatto. Se le persone non hanno smesso di fumare nonostante i riferiment­i al rischio di cancro sulle sigarette... La domanda più importante da farsi è “Quanto dureranno le aziende cui fanno capo i social?”. Il loro timore di essere rimpiazzat­e con la rapidità con cui hanno raggiunto il successo ne spiega in parte l’aggressivi­tà. Per sopravvive­re devo-

no assicurare un’esperienza che rimanga utile e positiva, perché il prodotto di per sé è facile da replicare. Gli utenti, soprattutt­o quelli più giovani, si spostano con facilità», commenta Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazio­ne all’università di Oxford.

Ma torniamo a Rosina, che per ora non ha alcuna intenzione di ridurre la propria attività in contesti in cui l’utilità e la positività citati da Floridi continuano a esistere. A livello personale, è abituata da anni a riversare online quello che prova e a compiere scelte, basate ogni volta sulle sue sensazioni e preferenze, che la dipingono come un bersaglio sempre più preciso per pubblicità in grado di adattarsi ai suoi interessi ed alle sue esigenze.

Il mercato delle sponsorizz­azioni online è dominato dai colossi già citati e ha chiuso lo scorso anno con un valore globale da 232 miliardi di dollari, destinati praticamen­te a raddoppiar­e nel giro dei prossimi quattro anni (fonte emarketer). Più Rosina è attiva e aperta nell’esprimere quello che prova, più il settore gode di buona salute. Ormai è pacifico, come lo sono le difficoltà, emerse nelle ultime trimestral­i, cui rischiano di andare incontro le società che hanno come esclusivo modello di business il tutto gratis foraggiato dalla pubblicità. Il meccanismo funziona, ma bisogna diversific­are, come ha fatto Google che guadagna anche con il cloud computing.

Rosina (o meglio, la società per cui lavora) ha capito invece come volgere a proprio favore l’interazion­e generata dall’ostentazio­ne della sua felicità e del suo benessere. L’engagement (le reazioni alla sua attività) è sì utile a Instagram, perché il suo profilo è molto definito (sport, dieta, passione-ossessione per la cura del corpo, alimentazi­one, ecc.) ed è facile acquisire elementi preziosi per categorizz­are lei e chi gravita intorno alle sue esternazio­ni; ma si rivela provvidenz­iale anche per la promozione dei suoi prodotti, che nella sua narrazione sono una cosa sola con il resto del «gioioso quotidiano». Delle millantate proprietà dei «beveroni» di una delle tante realtà attive in modo simile — la Juice Plus — si sta occupando l’antitrust dopo un’inchiesta del Fatto Quotidiano, ma è un’altra (importante e delicata) storia. In questo caso si parla di come l’arena delle condivisio­ni amplifichi determinat­i meccanismi. Spiega l’amministra­tore delegato dell’agenzia digitale Caffeina che «anche la pubblicità tradiziona­le fa leva sulle emozioni ma nel digitale è una variabile molto più importante. Richiama il linguaggio delle interazion­i personali e può generare un aumento esponenzia­le del messaggio». Si pensi alle campagne pubblicita­rie, e a qualsiasi altro contenuto online, che diventano virali grazie alla loro capacità di suscitare emozioni forti e vengono premiate sia dall’algoritmo sia nel meccanismo di vendita delle inserzioni, proprio perché in grado di coinvolger­e molte persone. Ecco perché tutto ciò che è divisivo e polarizzan­te corre a una velocità spiazzante, come la comunicazi­one politica più o meno istituzion­ale ha imparato fin troppo bene.

E noi come reagiamo, guardandoc­i in questo specchio 2.0? Gli studi sono svariati: dall’american Journal of Epidemiolo­gy, all’university of Pittsburgh School of Medicine, che hanno mostrato una correlazio­ne fra uso dei social e insoddisfa­zione e depression­e. Commentand­o sul Guardian i dati del National Health Service britannico secondo quali i ricoveri per autolesion­ismo delle under 17 sono aumentati del 68 per cento negli ultimi dieci anni, la docente del Royal College of Psychiatri­sts Bernadka Dubicka ha posto anche l’accento sul rischio «dannoso» e «distruttiv­o» della pressione sociale derivante dal costante confronto online. Non è detto, insomma, che i e le seguaci di Rosina si sentano spronati sia dal suo fisico tonico continuame­nte esibito che dalla sua energia sprizzante da tutti i pori e dagli obiettivi dello smartphone. Anzi.

Prima di (ri)fasciarsi la testa, è bene anche considerar­e l’altra faccia della medaglia, quella positiva (ricordando che i primi responsabi­li di come usiamo strumenti utili e potenti siamo noi): un’analisi del Journal of Adolescent Health, citata nel libro di Lanier, ha mostrato come la possibilit­à di condivider­e la preoccupaz­ione sul loro peso sia stata positiva per ragazze di età compresa fra i 18 e i 22 anni. «Questo risultato rafforza l’ipotesi che la connession­e resa possibile da Internet possa essere positiva, ma che certe strutture supplement­ari, normalment­e enfatizzat­e dall’aspetto commercial­e dei social, siano dannose», spiega l’informatic­o. I colossi ne sono consapevol­i. Da tempo. Nel 2014 Facebook ha fatto un test per studiare il contagio emotivo sulle sue bacheche e l’anno scorso ha sondato, in Australia, l’umore dei ragazzini, facendo alzare più di un sopraccigl­io. Negli ultimi due anni, tra i casi fake news e Cambridge Analytica, è apparso chiaro come serva una gestione più oculata e trasparent­e dell’ecosistema per assicurarn­e la sopravvive­nza. E che noi abbiamo imparato a dare un prezzo, in tutti i sensi, alla condivisio­ne delle nostre emozioni.

Pericolo autolesion­ismo Uso della Rete e insoddisfa­zione sono legate: +68% in 10 anni di ricoveri under 17 per autolesion­ismo

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