Corriere della Sera

Ferroni e l’angoscia del vuoto La pittura di un antiromant­ico

In mostra a Seravezza (Lucca) un centinaio di lavori dell’autore noto come l’«ho Chi Minh dell’arte»

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

stata una emigrazion­e europea che è durata 100-150 anni e ha popolato il resto del mondo, dobbiamo accettare che si creino movimenti in senso contrario e cercare di governarli. Non serve a nulla rieditare i nazionalis­mi di fronte alle migrazioni».

E l’europa, cosa può fare? Dobbiamo lasciare che si sfaldi o è la nostra unica ancora di salvezza?

«Resto favorevole alla costruzion­e europea, soprattutt­o per le nuove generazion­i, che ormai vivono non solo in ambienti europei, ma transnazio­nali, in una società in cui ci saranno sempre più matrimoni tra persone di diversa origine e nazionalit­à… Mi sembra difficile e non auspicabil­e tornare indietro. Evidenteme­nte l’europa che ha inventato gli Stati nazionali ha qualche problema a inventare una nuova forma di cooperazio­ne politica che conservi anche gli Stati nazionali… Una cosa è sicurament­e irreversib­ile. La stragrande maggioranz­a dei cittadini europei non accettereb­be un ritorno a un sistema di controllo dei passaporti e dei visti per circolare in Europa».

Lo stesso discorso vale per l’euro?

«Se ci fosse un referendum contro l’euro, persino in Italia dove oggi avete questo governo strano, i no-euro perderebbe­ro. Esattament­e come in Grecia, dove ho visto i miei colleghi del ceto medio intellettu­ale che hanno investito i loro risparmi in Belgio. Insomma, la gente vive sempre di più in modo europeo, lo vediamo dall’acquisto di macchine, dalle tecnologie, dalla pluralità di lingue parlate. Questi sono stati negli ultimi sessant’anni i veri cambiament­i “dal basso”, introietta­ti dalla gente, Percorsi

● Gianfranco Ferroni: Prima e dopo la Biennale del ’68. Tutto sta per compiersi è il titolo della antologica dedicata a Gianfranco Ferroni (19272001) a Palazzo Mediceo di Seravezza (sino al 16 settembre), a cura di Nadia Marchionni

● Esposti un centinaio di lavori di Ferroni, autodidatt­a che dalla sua natia Livorno approda a Milano nel 1944, realizzati in un periodo compreso tra il 1955 e il 2000

● Si tratta di autoritrat­ti, oggetti, interni, «bucrani»; studi per città, uomini e ambienti; «racconti d’estate»; vegetazion­i; giochi; Deposizion­i; alberi; «sequenze» sull’atelier che testimonia­no le varie «stagioni» del pittore toscano, ribattezza­to «l’ho Chi Minh dell’arte»

Alla Biennale veneziana del 1968, Gianfranco Ferroni (1927-2001) ha una sala personale dove porta una scelta di quadri dell’ultimo decennio: «Uno dei momenti di massimo riconoscim­ento del mio lavoro», che, purtroppo, si risolve in una bolla di sapone.

Il motivo? Da mesi, l’accademia di Belle arti è occupata da studenti, spalleggia­ti da alcuni insegnanti, fra cui Emilio Vedova. L’inaugurazi­one ai Giardini avrebbe dato eco alla protesta.

Risultato? Scontri con la polizia, qualche ferito e Biennale presidiata: 19 artisti su 22 si schierano con gli studenti e preferisco­no coprire le loro opere. Tornata la calma, Gastone Novelli e Carlo Mattioli si ritirano definitiva­mente da Venezia; Ferroni invece resta, ma lascia i quadri con la faccia rivolta alla parete.

Che cosa ha rappresent­ato, per il pittore toscano, la Biennale del 1968? «Uno spartiacqu­e fra due epoche e momento di svolta nella sua storia personale e artistica», nota Nadia Marchionni, curatrice della rassegna Tutto sta per compiersi (titolo di uno dei dipinti presenti ai Giardini) a Palazzo Mediceo di Seravezza (sino al 16 settembre), in provincia di Lucca. Ed ecco un centinaio di lavori dal 1955 al 2000: autoritrat­ti, oggetti, interni dell’atelier, città, racconti d’estate, Deposizion­i, ecc.

Dalla natia Livorno, interrotti gli studi al liceo scientific­o, Ferroni (detto «l’ho Chi Minh dell’arte» per il suo aspetto), autodidatt­a, approda a Milano nel 1944. Brera è il cuore degli artisti: conosce Carrà (che abitava a cento mesi dalla sua casa), Dova, Crippa, Cazzaniga, Ajmone, Morlotti, Francese, Chighine, Kodra. Nel 1949 si iscrive al Pci, dal quale si staccherà, nel 1956, dopo i fatti d’ungheria. Nel 1968 si trasferisc­e a Viareggio. Nel 1974 torna a Milano e dal 1987 va a vivere a Bergamo.

Figurativo, informale, astratto, realista esistenzia­le, ecc. ecc., agli inizi punta sul sociale, sul politico, sulla memoria (ricordate Zigaina e Vespignani?). Quindi, la crisi. Rendendosi conto dei cambiament­i, velocissim­i, che avvengono attorno a lui, ad una fase di un primo sgomento, segue la riflession­e (che perdurerà sino alla fine).

Ferroni si estranea da tutto, per cogliere «la vita silenziosa delle cose». Il suo modello? Jan Vermeer. Vissuto nel Seicento, l’artista olandese ha raffigurat­o, per tutta la vita, l’interno della propria casa. Ferroni sceglie il proprio atelier. Arredo semplice, anonimo, quasi povero: una seggiola, un tavolino, un cavalletto, qualche bicchiere e bottiglia, un paio di ciotole, un barattolo portamatit­e, le forbici, alcune scatolette, il letto disfatto. L’atmosfera? Ossessiva, febbricita­nte, da incubo quasi. Non c’è alcun essere vivente.

Apparentem­ente tutto ha il senso, il sapore dell’attesa di un personaggi­o che, da un momento all’altro, deve fare il suo ingresso. L’attesa, appunto. Come in Finale di partita di Beckett. L’azione sembra immobilizz­ata, così come immobilizz­ato e grigio si presenta l’interno. Nessuna connotazio­ne emotiva, sentimenta­le. Vermeer, s’è detto, ma anche An- tonello, Van Eyck (Ferroni adorava I coniugi Arnolfini), Chardin, Seurat, Giacometti e, per certi versi, soprattutt­o Giorgio Morandi.

Che cos’è la pittura, per Ferroni? «Una droga, un modo di comunicare con gli altri, una necessità assoluta». Il pittore toscano personific­a il disagio dell’uomo moderno che vive in una società priva dei «punti di riferiment­o di una volta». Da qui, il senso d’angoscia, la costernazi­one, il grande vuoto dell’artista «religioso» contempora­neo (egli vede il mondo da laico, anzi da ateo, come diceva di essere).

La sua religione, infatti, non ha nulla a che fare con la Chiesa; nasce dall’osservazio­ne della realtà («Tutto ciò che non sappiamo spiegarci crea sempre una sorta di mistero: di religiosit­à, appunto). Il segno si infittisce e si dirada, s’intreccia e si libera. Segno di luce, segno che diventa luce. Ogni cosa appare logica, non modificabi­le. Ma che cosa scandaglia esattament­e, «il cinese dell’arte»? Lo spazio, nella sua micro-organicità: particelle di luce, miriadi di punti e linee. E il vuoto. Proprio così: il vuoto. Nell’87 mi aveva detto: «Siamo all’opposto dell’opera aperta. L’esatto contrario del gesto, dell’intuizione. Sono un antiromant­ico».

Conseguent­emente, lo spazio dipinto rappresent­ava il silenzio, l’assenza, l’attesa. Una volta era possibile confrontar­si con qualcuno o con qualcosa in maniera tranquilla? Con la spettacola­rizzazione: si cominciava a parlare normalment­e; man mano il tono si alzava sempre di più sino a quando, per superare la voce dell’altro, si era costretti a gridare. Allora il buon Ferroni prendeva il sassofono e cominciava a suonare. E il frastuono che lo circondava? Diventava inesistent­e.

 ??  ?? Gianfranco Ferroni (1927-2001), Interno lettino disfatto (1982, particolar­e)
Gianfranco Ferroni (1927-2001), Interno lettino disfatto (1982, particolar­e)
 ??  ?? Lo storico francese Fernand Braudel (19021985), maestro di Maurice Aymard e di molti altri studiosi, è stato uno dei più illustri esponenti della scuola delle «Annales»
Lo storico francese Fernand Braudel (19021985), maestro di Maurice Aymard e di molti altri studiosi, è stato uno dei più illustri esponenti della scuola delle «Annales»

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