Corriere della Sera

VITTORINO ANDREOLI

- Rscorranes­e@corriere.it

Mi definisco un «infelice gioioso», il mio unico rammarico è che avrei voluto fare di più per gli altri. Detesto i teologi perché pretendono di spiegare un mistero certo da persona quasi in difficoltà».

Lei, in disaccordo con un altro illustre veronese, cioè Cesare Lombroso, ha sempre detto che i sani possono diventare matti e viceversa. Siamo forse un po’ più matti oggi?

«No, perché io ho un grande rispetto per quelli che affettuosa­mente ho sempre chiamato “i miei matti” e ai quali ho dedicato buona parte delle mie ricerche. I matti sono più originali, più interessan­ti. Lei tra Galileo e Bellarmino chi scegliereb­be? I matti sono geniali, producono a volte cose bellissime: pensi solo all’art brut. La normalità è noiosa. Ma non sto parlando della misura, che è ben altra cosa: la tendenza all’eccesso di oggi indica che l’uomo, non “matto”, non vuole essere misurato».

Questo è l’anno in cui la legge Basaglia ne compie 40. Lei è intervenut­o poco, perché?

«Sono intervenut­o solo in un convegno a Milano nel quale è emerso che oggi, su 450 servizi di diagnosi e cura, solo 23 non usano la contenzion­e fisica. In tutti gli altri vengono applicati presidi di vario tipo per limitare i movimenti del paziente. Devo aggiungere altro?»

Lei ha seguito numerosi serial killer. Oggi però questa figura, almeno sul piano mediatico, si è molto diradata. Sono finiti gli assassini seriali o siamo cambiati noi?

«I cosiddetti serial killer si muovono sempre su uno sfondo sessuale, diretto o indiretto. Evidenteme­nte sono cambiate le nostre abitudini sessuali, abbiamo meno limiti. Penso a Donato Bilancia, 13 ergastoli da scontare per 17 omicidi. Lui aveva un modus operandi terribile: avvicinava la prostituta, la faceva inginocchi­are e, ottenuta la prestazion­e sessuale, le puntava una pistola alla tempia».

Si fermò davanti a una donna che, capite le sue intenzioni, gli mostrò la foto del figlio.

«Sì, e in seguito fu catturato proprio grazie alla segnalazio­ne della donna. Lui si fermava sempre laddove c’era di mezzo un bambino. Una volta aveva deciso di uccidere un prete. Entrò in questa chiesetta, chiese del sacerdote ma poi vide un ragazzino nei paraggi e si bloccò. Se ne andò senza fare nulla. Vede, la mente umana è un mondo complesso e se io oggi ho un rammarico è che avrei voluto fare di più. Di più per gli altri, per la società, per i miei matti. Non mi basta mai quello che faccio».

Eppure, lei sembra una persona felice.

«Sono un “infelice gioioso”. Non amo il concetto di felicità perché è individual­e, direi egoistico. La gioia invece è corale, si può condivider­e e trasmetter­e. Se vuole sapere qual è stata una grande gioia della mia vita glielo dico: sono stato felice quelle due volte in cui mio padre mi ha detto che era contento perché io ave- Chi è

● Vittorino Andreoli (Verona, 1940) è uno dei maggiori psichiatri viventi. È stato direttore del Dipartimen­to di Psichiatri­a di Verona-soave ed è membro della New York Academy of Sciences. Tra le sue opere di saggistica ricordiamo La terza via della Psichiatri­a, Un secolo di follia, Elogio della normalità. Andreoli ha anche scritto l’autobiogra­fia La mia corsa nel tempo e il romanzo

Il silenzio delle pietre

● A fine agosto, Rizzoli pubblicher­à il suo ultimo saggio, dal titolo Homo Stupidus Stupidus L’agonia di una civiltà vo fatto il mio dovere. Nonostante fossi un gran secchione, non mi ha mai detto “bravo”».

Torna la figura di suo padre. È vero che la sgridava perché era sempre spettinato?

«Sì! Ma con affetto. Come vede, lo sono ancora: non sono mai andato dal barbiere».

Però lei ha cinquant’anni di matrimonio alle spalle. Sua moglie è una psicanalis­ta. Qual è il segreto di un legame così duraturo, a parte le due figlie e i nipoti?

«Sarò preciso in questo: perché mi sforzo di capire che non siamo solo degli “io”, ma tutti noi siamo delle “storie”. In continua evoluzione e narrazione. Certo, anche nel dolore. Ma nel momento in cui smettiamo di pensarci come entità individual­i e ci convinciam­o che un poco dipendiamo dagli altri e che gli altri un poco dipendono da noi, be’ i legami durano» .

Vittorino Andreoli è rinomato per la sua rigorosa riservatez­za nella vita privata. Ma qui faccia un’eccezione e ci racconti come ha conosciuto sua moglie.

«Va bene, farò uno strappo. L’ho conosciuta ovviamente all’università perché, come ho detto, io pensavo solo a studiare e non avevo altre occasioni di incontrare persone. Di lei mi ha colpito subito l’aspetto materno, con il fisico “dolce”, cosa che mi ha sempre attratto».

Ahia, professore, qui però torna la figura della mamma!

(ride) «Ma che fa, mi analizza?»

Scherzi a parte, a sentirla parlare si direbbe che lei sia mosso da una grande forza. È fede?

«Le confesso la mia personalis­sima preghiera, che non ho mai rivelato a nessuno. Fa così: caro Dio, io non credo di conoscerti, ma ricordati che se ti conoscessi, farei esattament­e quello che tu mi chiedi».

Un non credente fiducioso?

«Non sono ateo. Ma detesto i teologi perché vogliono spiegare un mistero che, invece, appartiene alla nostra esperienza. Ci dividiamo in tre categorie: i credenti, i non credenti (categoria alla quale appartengo) e gli atei. Se mi posso permettere, la chiesa forse dovrebbe concentrar­si su di noi, non credenti però in qualche modo in attesa».

Che cosa la annoia professore?

«L’arroganza del potere. Perché è prevedibil­e, perché è debolezza. Amo le persone originali, poco mondane, poco inclini ai compromess­i. E diffido di chi fonda tutto sul denaro».

Si diverte?

«Non guardo la tv, non vado al cinema, passo il mio tempo a studiare e a scrivere i miei libri. Noioso? Forse, ma di certo molto libero».

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