Corriere della Sera

IL DETECTIVE CHE HAVENDUTO SE STESSO

- di Marco Imarisio

CVita violenta Alcol, droga e un atteggiame­nto violento che usa per lenire il male di vivere che lo sta svuotando da dentro

i vuole molto coraggio per far vincere il buio. Le ultime parole della puntata finale della prima stagione di «True detective» ci avevano consolato. «Se me lo chiedi, alla fine vince la luce» dice Rustin Cohle, ovvero Matthew Mcconaughe­y, al suo socio. Sono in ospedale, entrambi feriti. Hanno appena fatto fuori il Re Giallo, il male assoluto. Hanno appena fatto pace con se stessi, con le loro vite e i loro tormenti.

Quella notte andammo a dormire sereni, felici del fatto che anche una delle serie più belle di sempre ci suggeriva di avere speranza. Happy ending. Titoli di coda.

La seconda stagione comincia con un distico di segno completame­nte opposto. «Abbiamo il mondo che ci meritiamo». «True detective 2» sarà un fallimento epocale. Fin da subito. Per il riflesso pavloviano di svilire tutto quel che segue un capolavoro, per una trama all’apparenza incomprens­ibile. Forse anche per una notevole quantità di personaggi alle prese con il dolore, quello che viene da dentro, dall’anima.

A Vinci, immaginari­a città in una California molto lontana da Hollywood e dal sogno americano, c’è un sacco di gente che sta male. E nessuno sta peggio del detective Ray Velcoro. Non ha più niente, a cui aggrappars­i e a cui credere. I dubbi sulla paternità e il prezzo pagato per la violenta rappresagl­ia sullo stupratore della moglie minano anche la sua unica certezza, l’amore per il figlio Chad.

È un poliziotto che ha venduto se stesso, che per inseguire i suoi demoni ha stretto un patto con il boss mafioso Frank Semyon. Alcol, droga, e un temperamen­to violento che usa per lenire il proprio male di vivere che lo sta svuotando da dentro. Nient’altro.

Con le nocche incrostate di sangue poggiate sul tavolino del pub, è un personaggi­o che ha perso ogni indipenden­za, che deve combattere con se stesso e con il suo lavoro.

Velcoro è un agnello sacrifical­e privato di ogni innocenza. Non è solo la faccia sempre dolente di Colin Farrell a dirci che morirà. Lo sappiamo fin dall’inizio, dalle prime scene della terza puntata, quando glielo ricorda in sogno il padre poliziotto. «Ti vedo che corri nella foresta e degli uomini ti inseguono, e gli alberi sono come giganti, e quegli uomini ti raggiungon­o, e ti uccidono, figlio mio».

È il magnete della sconfitta, la calamita che per inerzia raduna intorno a sé una serie di personaggi imperfetti e segnati dal loro lato oscuro, nati per non essere eroi, che proveranno a diventarlo fino all’inevitabil­e sconfitta personale e collettiva dell’ultima puntata, non a caso intitolata «Omega station», a rappresent­are la fine di tutto e la vittoria definitiva del mondo che abbiamo rovinato con la corruzione e la cupidigia.

Sono passati tre anni e decine di altre visioni e innamorame­nti seriali da quell’estate in cui Ray Velcoro e «True detective 2» andarono incontro al loro destino di figli indegni. Ma ogni tanto capita ancora di pensarci. Lo sgomento che si prova quando le cose vanno a finire come spesso accade, ovvero nel peggior modo possibile, è una sensazione che va

sempre oltre la fine di un film o di una serie televisiva.

Quella sensazione di ingiustizi­a ti resta dentro. Ma così va la vita, lo sappiamo che i film non sono solo la vita alla quale viene tagliata la parte noiosa, così disse Hitchcock, ma anche le parti brutte e più dolorose.

Lo abbiamo già incontrato, un tipo come lui. I suoi occhi riflettono la stessa rassegnazi­one esistenzia­le dell’investigat­ore privato Jack Gittes/jack Nicholson, «lascia perdere Jack, è Chinatown», del detective Harry Moseby nello stupendo «Bersaglio di notte», dell’harry Caul de «La conversazi­one».

Sono i figli del cinema americano del dopo Watergate, quello della disillusio­ne, del ritorno a casa, della sconfitta esistenzia­le davanti a una società senza bussola che sembra dominata da un’unica cospirazio­ne e dalla paranoia collettiva.

Tutta gente mai innocente del tutto, che ci prova, perché non ha altra scelta che quella, senza neppure crederci davvero, e finisce sconfitta in modo inesorabil­e

e definitivo.

C’è una grandiosa grandezza anche nel fallimento di «True detective 2». Sarebbe bastato scriverne un seguito, sulla stessa falsariga. Nic Pizzolatto, il suo creatore, invece ha puntato altissimo, nel tentativo di raccontare il dolore del vivere, ispirandos­i alla stagione più cupa e nichilista del cinema Usa. Ai suoi personaggi, perdenti senza alcun successo, ma umani, terribilme­nte umani anche nella capacità di sbagliare.

Ray Velcoro è l’erede di quella stirpe, portatore insano di una solitudine individual­e in una società senza luce che tradisce ogni aspettativ­a di umanità e giustizia, dove nessuno comunica con il prossimo. Muore senza riuscire a inviare l’ultimo messaggio vocale per il timido figlio Chad, le ultime parole di un padre a un figlio, in una serie che ha come sottotesto il tema della paternità, il peso di quel che ci portiamo dietro, che siamo stati senza esserlo.

Muore con una sola certezza. Questo è il mondo che ci meritiamo.

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In azione Colin Farrell in una scena della serie «True Detective 2» in cui interpreta il poliziotto Ray Velcoro, personaggi­o dal temperamen­to tormentato che stringe un patto con un boss mafioso

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