Corriere della Sera

PAOLO VI, IL PAPA CHE ANIMÒ LA «RESISTENZA CULTURALE»

Quarant’anni dalla morte Durante il fascismo fu il riferiment­o di docenti e universita­ri cattolici Diventando più tardi «l’unico pontefice democristi­ano» Conclavi Dopo Montini, con la morte improvvisa di Luciani, è finito il «papato italiano» che durava

- Di Andrea Riccardi

I l 6 agosto 1978, Paolo VI moriva nel silenzio di Castelgand­olfo. Quarant’anni fa. Con lui, dopo i rapidi giorni di papa Luciani, è finito il papato italiano che durava dal 1523. Perché? È una domanda spesso elusa. Eppure agli ecclesiast­ici italiani si riconoscev­a da sempre un’apertura sovranazio­nale che li rendeva adatti al papato. Durante la Grande guerra, Benedetto XV esprimeva questa convinzion­e, commentand­o una crisi provocata da un prete tedesco in Curia: «A questi benedetti stranieri, siano pure ecclesiast­ici... manca sempre qualche venerdì, la qual cosa li rende inferiori agli italiani i quali sono maggiormen­te apprezzati, riconoscen­dosi... maggior tatto, prudenza, calma ed equilibrio».

Invece, dal 1978, gli italiani non sono stati apprezzati, quando, dopo la morte improvvisa di Luciani, si scontraron­o le candidatur­e di Benelli e Siri, dietro cui c’erano diverse visioni ecclesiali, ma anche di politica italiana. I cardinali sentirono aria di provincial­ismo e guardarono altrove. Questo si è ripetuto nei conclavi successivi: in quello del 2013, l’elemento italiano è stato molto discusso. Il cattolices­imo italiano non è più capace di offrire candidati al papato? L’italia, in qualche modo, è declassata, anche se di questo si è parlato poco. Quantomeno i suoi cardinali non sono stati finora visti come figure di sintesi o carismatic­he. Del resto Ratzinger, l’unico Papa non carismatic­o dopo Wojtyla, si è dovuto dimettere.

Eppure l’italiano Paolo VI è stato un grande Papa, anche se oggi dimenticat­o. Fu un grande italiano dall’apertura universale, marcato dalla «brescianit­à» cattolica delle origini, lontana dalla «romanità» del Vaticano, all’epoca, corte pontificia. Brescianit­à significav­a fedeltà cattolica, ma anche italianità e apertura con simpatia al proprio tempo. Per questo, era un alieno nella Curia papale, dove lavorò dal 1923 al 1954, divenendo stretto collaborat­ore di Pio XI

e di Pio XII. «Era una macchina da lavoro», mi diceva l’anziano cardinale Ottaviani, che lo aveva conosciuto da giovane e lo considerav­a «pericoloso» perché riformator­e. Nel 1954, una congiura di prelati del «partito romano» convinse Pio XII, che amava molto Montini, a nominarlo arcivescov­o di Milano: promozione degna, ma per Montini l’esilio. Pacelli non fece più un concistoro e, alla sua morte, Montini fu escluso dal conclave e dalla succession­e.

I romani non perdonavan­o a Montini l’impegno politico. Durante il fascismo, animò la «resistenza culturale» di universita­ri e laureati cattolici, la fucina della classe democristi­ana, che resse l’italia dalla fine della guerra alla globalizza­zione. Dall’interno del Vaticano, sostenne l’autonomia di De Gasperi e difese la Dc presso Pio XII e in un mondo ecclesiast­ico spesso nostalgico dei regimi autoritari. Convinto democratic­o e bestia nera di Franco e Salazar, vide nella Dc il pilastro della democrazia italiana. «Fu l’unico Papa democristi­ano», ha scritto lo storico Emile Poulat. Forse il Papa che più ha inciso nella storia politica italiana.

Per uno scherzo del protocollo, il cardinale Ottaviani, che aveva considerat­o Montini un «pericolo», dovette annunciare dalla loggia di San Pietro, il 23 giugno 1963, la sua elezione con il nome di Paolo VI, dopo un conclave che non lo scelse a larga maggioranz­a. Paolo VI, capace di audacia ma attento gradualist­a, guidò la riforma della Chiesa a partire dai lavori del Vaticano II. La cifra del pontificat­o fu il governo come sintesi. Ma, dopo il ’68, non erano tempi di gradualism­o. Il movimento contestato­re gli rimprovera­va l’insabbiame­nto delle speranze conciliari. Il cattolices­imo conservato­re lo accusò di svendere la Chiesa di sempre e di causarne la crisi. I quindici anni di governo furono duri, segnati in parte dall’impopolari­tà per un Papa lucido e moderno, ma senza il carisma di Giovanni XXIII e di Wojtyla.

Paolo VI fu un «principe riformator­e», capace di ardite riforme, dando spazio alle Chiese nazionali, ma rafforzand­o il ruolo di Roma in un mondo plurale. Con la sua «brescianit­à» smontò del tutto la romanità della Curia per internazio­nalizzarla; si spostò fuori da Roma in vari viaggi internazio­nali; aprì il dialogo con tutti, anche con i regimi comunisti, persecutor­i della Chiesa, per salvare spazi di vita religiosa. I suoi ultimi anni furono amareggiat­i dal senso di fallimento del suo progetto riformator­e: «tempi d’incertezza e di disordine». Nel 1975, alla fine, assai criticato, volle tenere il Giubileo, che rivelò un cristianes­imo di popolo. Ebbe allora la percezione del futuro: «Rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunciare il Vangelo all’umanità del XX secolo», scrive nell’evangelii nuntiandi, suo testamento pastorale, testo ispiratore per Francesco. Questi canonizzer­à Paolo VI a ottobre. Sarà un santo senza devozione popolare, quella di cui godono Roncalli e Wojtyla: un intellettu­ale e un «politico» in senso nobile, di cui pochi oggi si ricordano, intreccio di virtù religiose e civiche, forse ormai fuori moda in un tempo gridato. Forse l’ultimo Papa italiano, lavorò talmente per l’internazio­nalizzazio­ne della Chiesa, che rese non più necessari i Papi italiani.

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