Corriere della Sera

INTERVENTI E REPLICHE

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In difesa dell’ospedale di Reggio Calabria

La scorsa settimana le cronache hanno dato ampio risalto a quello che viene purtroppo definito come «l’ennesimo caso di malasanità calabrese», riferendos­i all’ospedale di Reggio Calabria, sul quale molti giornali titolano: «Reggio Calabria, manca il gesso: le fratture steccate col cartone». Non conosco in modo approfondi­to gli elementi. Ma non credo che quanto raccontato sia voluto o anche solo tollerato dalla direzione e dai profession­isti che lavorano agli Ospedali riuniti di Reggio Calabria. Conosco direttamen­te la struttura ospedalier­a e posso testimonia­re che negli ultimi anni ha avuto una grande, positiva evoluzione: non vi è stato solo un uso oculato delle risorse pubbliche, ma soprattutt­o la volontà di dare cure adeguate. Credo anche che i progressi siano durevoli: lo testimonia il fatto che profession­isti di grande valore, da varie parti di Italia, abbiano accettato di impegnarsi a Reggio Calabria. Penso, per esempio, ai traguardi raggiunti dal nuovo centro cardiochir­urgico reggino, dove si registrano centinaia di interventi eseguiti con successo, sia con tecniche tradiziona­li che innovative. Niente, nel nostro sistema sanitario, è interament­e buono o interament­e negativo: ma bisogna che si colga la notizia che anche al Sud qualche realtà, come gli Ospedali riuniti di Reggio Calabria, ha interrotto la spirale dell’impoverime­nto sanitario e dell’uso assistenzi­ale delle risorse. Come direttore generale di un grande ospedale, ben conosco l’enorme fatica quotidiana profusa da quanti — e sono molti — operano con serietà e profession­alità nella sanità pubblica. Per questo apprezzo il coraggio e la determinaz­ione di quanti in Calabria hanno lavorato per fare ospedali che curino. Ben venga, quindi, l’indignazio­ne e la critica su sprechi e mancanze, ma troviamo spazio per raccontare anche i segnali di cambiament­o.

Marco Trivelli, dir. gen. Ospedale Niguarda, Milano

Gianni Vattimo e la candidatur­a con i radicali Nell’intervista a Gianni Vattimo (Corriere, 29 luglio) leggo: «Era il 1975, mi misero a mia insaputa in una lista di Radicali in quota gay. Lo lessi sul giornale e mi sentii sprofondar­e», ecc. La data era il 1976. Vattimo venne candidato in quanto docente universita­rio, non certo perché omosessual­e, non essendo mai intervenut­o pubblicame­nte sulla sua identità sessuale. Meno che mai «a sua insaputa», come Vattimo richiama sovente, anche perché per candidarsi alle elezioni occorre firmare una regolare accettazio­ne, nessuno, nemmeno oggi, può essere inserito a propria insaputa.

Angelo Pezzana

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