LA SPERANZA UMANISTA NATA NEL 1968
Un saggio di Giovagnoli
Dal movimento di Berkeley al Maggio francese, dalle lotte degli studenti di Sociologia a Trento alla «battaglia» di Valle Giulia a Roma. Grandi ideali in gioco, grandi questioni in discussione, avvenimenti clamorosi. La storia racconta che il Sessantotto è stato tutto questo. Ma in quest’anno quasi giubilare — a mezzo secolo da quei fatti — affiorano ancora chiavi di lettura inedite. Nel suo libro Sessantotto. La festa della contestazione (San Paolo, pagine 272, 24), Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’università Cattolica, sostiene che la contestazione fu «una travolgente esperienza esistenziale» in cui «centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze entrarono in un inedito intreccio di relazioni collettive, senza più confini rigidi tra pubblico e privato, tra personale e politico». Insomma, il Sessantotto fu «la festa di un incontro intenso e continuato che liberava dalla solitudine e dall’isolamento».
Tutto sommato, secondo Giovagnoli, «non è stata una rivoluzione» perché «non ha cercato di sostituire vecchie strutture con nuove strutture». Anzi: «Malgrado la durezza del linguaggio e delle sue azioni, la contestazione ha lottato contro l’autoritarismo ma non ha negato del tutto l’autorità, ha pesantemente criticato le istituzioni, ma non ha escluso la possibilità di una loro modificazione». Un’eredità di quell’atto di ribellione per questi nostri tempi? «Il tentativo di una reazione umanista all’avvento di un mondo sempre più consumista, tecnologizzato, disumanizzato», cioè «il sogno di un mondo a misura d’uomo».
Nell’analisi di quei due anni scarsi di sommovimenti, Agostino Giovagnoli dedica un capitolo al caso «emblematico» della Chiesa cattolica. Fino a quel momento era sostanzialmente la stessa definita dal Concilio di Trento. «All’inizio degli anni Sessanta del Novecento, poco prima della contestazione, questa Chiesa sorprese il mondo prendendo audacemente posizione in merito alla sua stessa storia nei quattro secoli precedenti e avviando un ripensamento della sua impalcatura istituzionale». Forse non si può attribuire anche questo alla contestazione giovanile, però avevano sicuramente ragione quelli che cantavano The Times They are a-changin’.