«Ray & Liz», una confessione sulla famiglia alcolica Oggi
● Fra le proiezioni di oggi spicca il film italiano «Sembra mio figlio» di Costanza Quatriglio, vicenda famigliare fra Europa e Afghanistan. In piazza Grande arriva invece «Le vent tourne» della regista svizzera Bettina Oberli LOCARNO Anni 80: alla periferia di Birmingham, ma anche della società inglese e del consorzio umano, sopravvive nell’era Thatcher la famiglia di Ray & Liz, i genitori del fotografo videoartista Richard Billingham che porta al festival di Locarno questo suo primo film-confessione girato in 16mm («era il mezzo di allora») e nato da una mostra di foto di famiglia: 108 minuti che contengono i suoi più lontani ricordi, come l’altro British della memoria, Terence Davies, ma senza poesia, senza dècor, senza sconti sulla volgarità di istinti e bisogni.
Nella famiglia il problema era l’alcolismo, soprattutto paterno, il bar sempre rifornito, i rapporti casalinghi diciamo non convenzionali — si perde il bambino ma si porta in carrozzina al parco il coniglio — in quella fetta di città detta Black Country. La madre, taglia xxl, fuma, beve vodka e fa i puzzle, lo zio non è da meno: intorno la miseria non solo morale, ma materiale per cui al confronto gli ambienti di Ken Loach sono da Regina Vittoria.
Un film che non mette didascalie né offre speranze, bello perché non svende facili risposte moralistiche, non fa sconti sul degrado. Nel bilocale spadroneggiano insetti e scarafaggi e lumache, i cani leccano il vomito, le mosche fanno il nido ma al mattino arrivano tre bottiglie di birra fatta in casa: «Volevo mostrare e non giudicare, tutto sta nascosto nei miei ricordi, sono partito dalle scenografie, i dialoghi li ho aggiunti alla fine, tenendo presente che da ragazzo registravo la voce della gente». È così ligio alla memoria, Billingham, che non solo è maestro di attori ma ha tenuto registri e documenti dei servizi sociali e scolastici, spesso ospiti nella famiglia che traslocherà in un triste casermone anaffettivo. Ray & Liz è un pezzo di sofferenza umana, non abbellita dagli sconti della memoria: «Sono un artista — dice il neo regista —, non mi piace la polemica, lascio ogni questione aperta e lavoro solo in analogico non in digitale». Questa è la spiegazione: nel suo diario non ci sono effetti ma affetti speciali, l’accettazione del destino alcolico e l’assenza di qualunque rapporto civile a porte chiuse. E poiché il fotografo è specialista nel ritrarre animali in cattività, ogni più cinico accostamento non è casuale.
Intanto ieri in Piazza festa per i 70 anni della dichiarazione dei diritti dell’uomo in un momento in cui c’è n’è un gran bisogno: testimone il bellissimo film di Spike Lee Blackkklansman, premiato a Cannes, storia vera del poliziotto nero che s’infiltra nel Ku Klux Klan il cui motto era già: «America first!».