Perché ci salverà la filosofia
Julian Nida-rümelin teorizza un’etica della migrazione. Ma cosa intende per pensiero?
Ci sono problemi che vanno risolti subito. Ad esempio se ci troviamo vicini a una persona che sta affogando. Ne sanno qualcosa le navi che tra Libia e Sicilia vedono centinaia di migranti in pericolo immediato di morte. Ma ancora più spaventosa è la sorte delle centinaia di milioni di esseri umani che rimangono nei Paesi poveri: sono i più deboli, ben lontani dal disporre dei duemila dollari per il viaggio verso l’europa. E molti di loro sono vicini alla morte, ora, per fame e malattie, tanto quanto lo sono coloro che si trovano su un barcone che sta affondando. L’opinione pubblica e i mass media prestano attenzione soprattutto alle vicende del primo di questi due gruppi, collegate come sono alle ripercussioni che hanno sulle società ricche e quindi sull’europa. Ma nella riflessione culturale sul fenomeno della migrazione i problemi relativi al secondo gruppo sono già da tempo discussi. Notevole impulso a questa discussione è stato dato dall’economista Paul Collier con la pubblicazione del suo saggio Exodus, tradotto in Italia nel 2015 da Laterza. Anche le sofferenze del secondo gruppo andrebbero affrontate subito. La potenza raggiunta dalla tecnica consentirebbe di eliminarle in gran parte (quasi cent’anni fa Keynes lo riteneva già fattibile), ma la gestione della tecnica da parte dei ricchi lo rende impossibile.
Sui problemi della migrazione — quindi anche su coloro che non possono andarsene dalle terre d’origine — si sofferma anche Julian Nida-rümelin nel suo Pensare oltre i confini. Un’etica della migrazione, del 2017 e pubblicato quest’anno in Italia da Francoangeli (a cura di Giovanni Battista Demarta, che dello stesso autore ha curato, per Francoangeli, Per un’economia umana, 2017). Ma, come appare dal titolo, diversa è l’impostazione. Collier parla da economista, Rümelin da filosofo (insegna Filosofia e teoria della politica all’università di Monaco di Baviera). L’«etica» è infatti il modo in cui la filosofia si rivolge all’agire dell’uomo. Ma Rümelin è stato anche ministro della Cultura nel primo governo Schröder. Cooperazione di efficienza capitalistica e di tutela del lavoro, cioè un’«economia umana», è a suo avviso il progetto che ha determinato l’affermazione della Germania in Europa e che egli consiglia anche all’italia. All’intento di indicare i fondamenti filosofici di un’«economia umana» appartiene anche questa sua importante etica della migrazione.
Mi sembra che essa si proponga di chiarire in che misura la filosofia possa contribuire anche alla soluzione dei problemi che, come quello della migrazione, richiedono una risposta immediata. Questo proposito coinvolge un modo di concepire la filosofia, che tuttavia, per quanto attraversato da spunti originali, è sostanzialmente allineato ai criteri con i quali la filosofia è oggi intesa nel mondo. In un tempo in cui l’economia e la tecno-scienza stanno al centro della scena mondiale l’importanza attribuita alla filosofia da un intellettuale e politico come Rümelin è interessante. Come interessanti sono le sue tesi che la democrazia non possa prescindere dalla «verità» e che l’etica debba tener conto del modo in cui essa è stata elaborata da Platone e da Aristotele. Ma il suo modo di intendere la filosofia e la «verità» è quello che gli è consentito dallo spirito del nostro tempo.
Egli sostiene, insieme a filosofi come Ronald Dworkin e Thomas Nagel, un «realismo etico» per il quale «ci sono ragioni buone e ragioni cattive, e ciò che è una buona ragione o una cattiva ragione non si risolve in ciò che volta per volta pensiamo e preferiamo (…). Io tento piuttosto di scoprire che cosa dovremmo fare, non ciò che comunemente si ritiene che andrebbe fatto» (pagina 13). Le «ragioni buone» esistono; ma per lui, come per tutta la cultura dominante, la bontà delle ragioni non può essere la loro verità incontrovertibile; e ciò che dovremmo fare non discende da un principio indiscutibile.
Ma in che modo Rümelin stabilisce la preferibilità delle «ragioni buone»? Sembra a volte che per lui una «buona ragione» consista, contrariamente a quanto abbiamo sentito, in ciò che comunemente si ritiene di dover fare. Scrive ad esempio (pagina 49): «Abbiano delle buone ragioni per prenderci cura delle nostre amiche e dei nostri amici, per accudire i nostri figli come genitori, per percepire una responsabilità nei confronti dei nostri allievi come insegnanti, e così via. Se una teoria etica è inconciliabile con tutto questo, allora è la teoria etica a fallire, non questa prassi diffusa nel mondo della vita». Ora, in questo passo, la «teoria etica» è la filosofia; ma «questa prassi» è, propriamente, l’insieme di regole a cui in vaste aree del globo l’uomo contemporaneo per lo più si è abituato ad adeguarsi (ma con eccezioni sempre più rilevanti); e il «mondo della vita» è quello che i Paesi ricchi sono riusciti a realizzare da due o tre secoli (se si va ancora più indietro, tale modo di vivere è sempre meno «diffuso»); e le «buone ragioni» che abbiamo per fare quel che facciamo sono l’insieme di preferenze che è stato adottato da questo tipo d’umanità prevalendo su altre forme di preferenza.
La filosofia deve avere quindi come fondamento, modello, pietra di paragone le convinzioni di questa umanità e si riduce a essere una sistemazione della «verità» costituita da tali convinzioni; così come, in campo epistemologico, oggi si ritiene per lo più che la «verità» sia il sapere scientifico, che la filosofia debba essere al massimo una riflessione su di esso e che con esso non possa mai essere inconciliabile. E come la filosofia non può essere qualcosa di inconciliabile con le convinzioni delle società ricche del Nord del Pianeta, così non può trovarsi a essere inconciliabile con esse nemmeno quell’aspetto della filosofia che è l’«etica della migrazione». Anche in questo campo sono il buon senso e le «buone ragioni» di quelle società a dettar legge alla filosofia.
Secondo il leitmotiv della cultura filosofica oggi dominante anche Rümelin prende congedo dal senso originario della filosofia, sviluppatosi lungo l’intera tradizione dell’occidente: la filosofia come sapere incontrovertibile, e quindi come critica del mito, del senso comune, delle «buone ragioni», delle convinzioni che di volta in volta i popoli hanno avuto. (Un congedo, osservo, che è sì inevitabile ma è anche estremamente più complesso di quanto ritengano e riescano a rendersi conto quasi tutti coloro che affermano di congedarsi). Rispetto all’idea di un sapere incontrovertibile, infatti, per quanto argomentate e coerenti tali convinzioni sono pur sempre opinioni, abitudini, congetture, forme di fede. Certo, sono le opinioni che tutti noi, sembra, condividiamo, ma «tutti noi» apparte-
I pilastri fondamentali L’autore cerca di dare risposte ai problemi immediati. Ma è speculando sulle grandi verità che si producono svolte durature