Quel quadrato nella sala buia, spegnetelo!
di non fatti, o la musica di Verdi, dove il teatro è già contenuto nella musica, e non ha bisogno poi di ulteriori sviluppi dell’azione. Scontato che attore derivi da, o debba il suo etimo ad agere, e non ad agire.
Quindi, questa gentaglia che sfaccenda nel palcoscenico ha alienato al teatro del Novecento tutto un pubblico — salvo gli abbonati, questa élite delle piccole masse, la tirannia delle plebi.
Ecco che vedono il n’importequoisme. Il cinema non ne parliamo. Insomma: è una celebrazione dei fratelli
Lumière. ***
Perché non si può dire, dopo i Lumière, cosa ci sia stato
— se togli quel minimo di autospavento cercato a tutti i costi, quell’attimo di smarrimento di certe tribù africane davanti al treno dei Lumière — io penso che la commemorazione duri
dall’ottocento. È quella, che si perpetua.
Una celebrazione dove si finge
d’incontrarsi, organizzata per una specie di turismo in
massa, gazzettiero; una specie di Las Vegas povera, per giornalisti di colore, non poi tanto colorati, né coloriti.
S’arrangiano, negli abbaini…
***
Non ha mai avuto una scrittura. La scrittura cerca solo la scrittura. Ogni autore deve innanzitutto far fuori
se stesso ed «essere straniero», ha detto
giustamente Deleuze, «nella propria lingua».
Lui lo attribuiva a me perché io non
adopero mai, in teatro, la traduzione simultanea, neanche all’estero, neanche se mi producessi per i pigmei, o
per i russi, o per i lapponi [...].