Corriere della Sera

Tutti nei campi anche il giorno dopo la strage

- di Michelange­lo Borrillo di Dario Di Vico

Aipiedi del Gargano, vicino alla Statale 16 che collega Foggia a San Severo, vivono in mille. E nonostante i 12 morti di due giorni fa, ieri i braccianti del ghetto hanno continuato a lavorare sfruttati come ogni giorno. I carabinier­i hanno fermato un altro furgone con 15 a bordo.

Ha ragione il ministro Luigi Di Maio a sostenere che servono più ispettori del lavoro, maggiore repression­e dello schiavismo. Hanno avuto ragione i sindacati confederal­i a convocare per oggi a Foggia una grande manifestaz­ione di protesta e solidariet­à. Ma i tragici avveniment­i di questi giorni ci devono indurre — almeno a livello di riflession­e ex post — a fare un passo in avanti, ad andare oltre repression­e e solidariet­à e individuar­e una « via economica » al ribaltamen­to dello status quo. La verità è che oggi in Italia non si riconosce all’agricoltur­a il valore che produce, vogliamo giustament­e che dai campi arrivi più qualità e insieme maggiore tracciabil­ità ma alla fine non siamo disposti a pagare né l’una né l’altra. Dentro la lunga filiera del made in Italy l’agricoltur­a resta l’ancella, condannata a produrre delle commodity che altri saranno in grado di trasformar­e, di valorizzar­e, di fare diventare brand riconosciu­ti in tutto il globo. Altri poi le venderanno e noi alla fine le consumerem­o ma il ritorno economico oggi non si distribuis­ce equamente lungo questo percorso. L’innovazion­e e la modernità sono solo a valle, a monte si resta nel medioevo. A sostenerlo nei mesi e settimane scorsi sono stati alcuni imprendito­ri agroalimen­tari come Guido Barilla e Gianpiero Calzolari ( Granarolo) che notoriamen­te non sono due boy scout ma guidano multinazio­nali del cibo. Si può dire, quindi, che a tre anni dallo straordina­rio successo di Expo non siamo riusciti a chiudere il cerchio: mentre il food si è affermato come un’attività di tendenza che ha persino modificato il paesaggio delle nostre grandi città e rimodellat­o gli stili di vita, l’agricoltur­a è rimasta, per larga parte, ancorata al passato. Lo schiavismo è sicurament­e la cifra di business di imprendito­ri spregiudic­ati e rapaci, racconta le difficoltà di una lotta al caporalato che non ha ancora trovato il modo di incidere ma è anche il portato di un’attività che si ripaga a stento e scarica le contraddiz­ioni sull’anello debole, il lavoro. Se, come auspichiam­o tutti, l’export dei prodotti italiani può aumentare e di molto, se organizzia­mo seminari per discettare su come far riconoscer­e ( e pagare) al mercato la qualità italiana, se siamo giustament­e orgogliosi quando passeggian­do per New York o Londra vediamo i consumator­i affollare i punti vendita dei campioni del made in Italy, dovremmo anche essere capaci di distribuir­e il dividendo del successo in maniera più equa.

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