L’università impoverita
«Una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi » . Nel dicembre 1938 in una lettera dal carcere Ernesto Rossi riassumeva così il cinismo con cui l’accademia italiana accolse le leggi razziali. Non bastano i numeri per capire l’effetto sull’università di quei provvedimenti, però aiutano a inquadrare la situazione: secondo una ricerca di Francesca Pelini e Ilaria Pavan furono 96 i professori ordinari espulsi, 141 gli incaricati, 207 i liberi docenti, cui vanno aggiunti gli assistenti e quanti cominciavano la carriera senza un contratto. Si trattava del 7% del corpo docente universitario italiano. Una ferita che mai venne sanata, perché come hanno scritto Angelo Ventura e Roberto Finzi, nel 1965 i docenti ebrei nelle università italiane erano il 2%. Furono 727 invece gli espulsi dalle varie accademie e istituzioni culturali. Gli storici dicono che le leggi razziali vennero accolte nelle università da una tacita disapprovazione, tuttavia solo lo scrittore Massimo Bontempelli ebbe il coraggio di rifiutare la cattedra di letteratura italiana tolta, a Firenze, ad Attilio Momigliano. L’università venne impoverita: dovettero lasciare l’insegnamento i capiscuola della matematica: Vito Volterra, Federigo Enriques, Guido Castelnuovo Guido Finzi. Per non parlare di Enrico Fermi, non ebreo, ma sposato a un’ebrea, che decise di partire per gli Usa. O di Cesare Musatti, osteggiato per le origini ebraiche e per la sua materia di insegnamento a Padova: psicologia sperimentale, in cui spiegava la dottrina di Sigmund Freud, uno degli uomini più odiati dal nazismo.