IPOCRISIE (E DAZI) IMPERIALI
Donald Trump ha ragione: la Cina non gioca pulito per quel che riguarda il commercio internazionale. Il problema è che nemmeno gli Stati Uniti e l’europa sono molto fair: praticano un «imperialismo del politicamente corretto» che spesso copre una realtà protezionista. Sono due ragioni potenti per cambiare le regole globali sugli scambi e per riformare la Wto, l’organizzazione mondiale del commercio oggi in notevole crisi e che, se non viene adeguata ai tempi, rischia di morire d’inedia. L’aggressività commerciale del presidente americano ha aperto un’opportunità per affrontare una questione di enorme rilevanza.
Se il governo di un Paese riceve il Dalai Lama, può stare certo che Pechino applicherà — nei confronti del suo export e delle sue imprese — politiche ostruzioniste, se non di vero e proprio ostracismo. Non dichiarate ufficialmente. Quando, nel 2010, il Norske Nobelkomité assegnò il Premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo, il salmone della Norvegia non poté entrare per anni in Cina. Gli Stati del Sudest asiatico camminano sui gusci d’uovo quando debbono prendere decisioni politiche che potrebbero irritare Pechino: le ritorsioni commerciali possono essere dolorose, come ha sperimentato di recente la Corea del Sud. E guai a chi sorride a Taiwan.
Se siete un’impresa hi-tech e volete entrare nel mercato cinese, con ogni probabilità vi verrà chiesto, come pedaggio d’ingresso, trasferimento di tecnologia a favore di imprese locali. Imprese che, invece, nella loro espansione internazionale sono spessissimo sostenute da Pechino. Aiuti di Stato che vanno anche a favorire — come denunciato più volte dalla Ue ad esempio nel caso dell’acciaio — le esportazioni dalla Cina. In compenso, fare acquisizioni nell’impero di Mezzo è difficile per l’occidente: politica industriale e leggi le ostacolano. Google non è entrata nel mercato cinese per non piegarsi alla censura (ora sta riconsiderando la scelta) e lo stop vale anche per altri giganti americani dell’internet: il che ha consentito lo sviluppo di grandi gruppi come Alibaba e Tencent a quel punto con scarsa concorrenza. Il tutto in sintonia con il progetto governativo Made in China 2025.
Dall’inizio del secolo, quando è entrata nella Wto, la Cina ha potuto migliorare le condizioni di vita di centinaia di milioni di suoi cittadini: un bene. E ha creato un grande mercato, anche questo positivo per le imprese occidentali. Ora che è una forte economia e che il presidente Xi Jinping ha deciso di alzare il profilo di potenza del Paese, molte imprese e governi occidentali sono però sempre meno disponibili ad accettare le pratiche commerciali di Pechino. Le tariffe imposte da Trump alle importazioni dalla Cina rientrano
in questo quadro: non è affatto detto che siano la strada giusta per riequilibrare la situazione; di certo, però, intervengono su uno stato dei fatti non sostenibile. Chi cita il vecchio ordine, stabilito nel dopoguerra, per criticare Trump che lo mina non tiene conto della portata dell’arrivo del gigante asiatico al banchetto del commercio mondiale, che ha stravolto menù e galateo.
L’incontro a Washington tra il presidente americano e quello della Commissione europea Jean-claude Juncker, a fine luglio, ha sottolineato
Scambi La Cina spesso gioca con carte truccate. Ma pure l’occidente ha un approccio scorretto
questa realtà e ha aperto la porta a una collaborazione (fragile, non scontata) tra le due sponde dell’atlantico per affrontarla. Cominciando dalla riforma della Wto. Qui, però, l’occidente ha un punto di debolezza: negli anni scorsi ha introdotto nel commercio una serie di regole che con il commercio hanno poco a che vedere ma ne hanno molto per la strada che i singoli Paesi, soprattutto quelli poveri, scelgono per svilupparsi. Quasi sempre, ormai, negli accordi commerciali vengono introdotte regole sui salari, sulle condizioni di lavoro, sull’ambiente, sul clima che in realtà funzionano da barriere non tariffarie e limitano il libero scambio. Non che salari e ambiente non siano importanti: è che legarli al commercio provoca distorsioni, ovviamente sfavorevoli ai Paesi meno avanzati.
Inoltre, in questo modo l’occidente costringe le nazioni più povere a percorrere modelli di crescita che forse non sceglierebbero. Negano cioè agli altri di seguire una via verso la creazione di ricchezza che essi stessi hanno seguito agli inizi della loro industrializzazione. In un articolo recente sul Financial Times, l’economista americano Dani Rodrik ha scritto che occorre rispettare le diversità mentre invece «le nostre regole sul commercio si sono spinte troppo oltre». Se si vuole che la Wto funzioni e rimanga l’istituzione che scrive e fa rispettare le regole, queste vanno cambiate: per riportare la Cina a rispettarle e per evitare che il politicamente corretto di Stati Uniti ed Europa, che maschera il protezionismo, crei nuove tensioni tra ricchi e poveri.