Corriere della Sera

PERCHÉ È GIUSTO CELEBRARE IL 4 NOVEMBRE

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Caro Aldo, di nuovo una proposta per rendere il 4 novembre festa nazionale. Quel giorno segna la fine di una immane tragedia che sul fronte italiano ha causato più di un milione di morti (e molti di più invalidi), innumerevo­li e irreparabi­li perdite al patrimonio materiale, artistico e culturale, enormi sofferenze e traumi alle popolazion­i coinvolte; e tutto per impadronir­si (è stata una guerra di aggression­e, come tutte le guerre della «pacifica» Italia) di territori abitati da popolazion­i che in maggioranz­a non erano italiane, né volevano esserlo. Festa per la vittoria? Non c’è stata nessuna vittoria: tutti hanno perso! Paolo Fabbro, Udine

Caro Paolo,

Le assicuro che la sua è una voce controcorr­ente. Al Corriere abbiamo ricevuto decine di messaggi sulla proposta di ripristina­re la festività del 4 novembre, almeno in questo 2018 del centenario, tutti positivi. A maggior ragione è importante ascoltare le voci contrarie. Mi rendo conto che celebrando la vittoria si cammina su un crinale stretto; e non per le sciocchezz­e che girano su Internet, secondo cui in quei giorni di fine ottobre e inizio novembre non ci fu nessuna battaglia, mentre è acclarato che la resistenza austrounga­rica all’inizio fu accanita, e sul Grappa subimmo perdite come nelle giornate più nere sul Carso. No, il problema è la nostra memoria del primo conflitto mondiale. Una carneficin­a terrifican­te. Una guerra che era meglio non fare. Ma è possibile, e secondo me doveroso, criticare la scelta dell’intervento, e nello stesso tempo ricordare il sacrificio dei nostri nonni. Anche perché nell’ultimo anno la guerra cambiò segno. Non si trattava più di andare all’assalto per liberare Trento e Trieste, città italianiss­ime contrariam­ente a quel che lei dice, ma in cui nessuno dei nostri nonni era mai stato; così come nessuno era mai salito su quelle montagne, spesso dal nome slavo, che costarono decine di migliaia di giovani vite. Dopo Caporetto la guerra cambia. Sul Piave e sul Grappa si combatte per salvare la patria e le famiglie, per evitare che ad altre donne italiane toccasse quel che stavano subendo le friulane e le venete al di là del fiume, per difendere il miracolo dell’unificazio­ne, avvenuta appena mezzo secolo prima. C’è dietro il tono della sua lettera, gentile lettore, l’eco di quel distacco dalla storia nazionale, di quello sprezzo per quanto di buono e di coraggioso hanno fatto i nostri padri — nel Risorgimen­to, nella Grande guerra, nella Resistenza — che è molto nelle corde del nostro tempo, in cui si pensa che essere italiani sia una vergogna o una sfortuna. Resto convinto però che non sia così.

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