Pazienza e cuore di un riformista autentico
Cesare aveva solo sei anni più di me. Eppure la generazione cui apparteneva si era formata in un mondo molto distante dal mio. Era la differenza fra chi nell’università aveva vissuto la prima parte degli anni Sessanta, il periodo delle due grandi emancipazioni, dal comunismo a sinistra e, dall’altra parte, da una borghesia che non era nata da una rivoluzione liberale, ma era legata ai valori cui faceva riferimento Alberto Moravia quando scrisse, a proposito del processo a Pier Paolo Pasolini: «L’accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana».
Molti che quel tragitto intrapresero a sinistra, finirono per perdersi. Non Cesare, che, ricordando quegli anni, scrisse: «Chi restò fuori da quel disegno fummo noi, che quando l’appello alla violenza divenne esplicito e inequivocabile, ci fermammo, scegliendo un percorso diverso e alternativo, e che di fronte alla loro apologia proviamo a riaffermare di aver avuto più lucidità e lungimiranza. La storia non è finita e neppure il conflitto, ma il sogno di superarlo una volta per tutte non c’è più e neppure la catastrofe “inevitabile” c’è stata. Ci sono invece tanti problemi irrisolti, tante questioni aperte, che aspettano non la rivoluzione, ma un paziente esercizio del rimedio».
L’esercizio di un uomo in cui non esisteva scissione fra cultura, politica, amici e affetti, e che a quel rimedio ha contribuito con una curiosità che non conosceva tregua.