Corriere della Sera

Padre Alex Zanotelli Dalle missioni in Africa al rione Sanità di Napoli «Dono la mia pensione, vivo di offerte. Voto, ma è una sofferenza»

- Di Stefano Lorenzetto

P adre Alex Zanotelli non festeggia i compleanni, quindi l’unico regalo che si aspetta per i suoi 80 anni – fra due settimane, il 26 agosto – è un «campo biblico», che non so cosa sia ma di sicuro non sembra una torta con le candeline. Dopo una vita trascorsa in Africa, dal 2004 fa il missionari­o al rione Sanità di Napoli, più noto per la camorra che per aver dato i natali a Totò.

Il comboniano abita in un bugigattol­o annesso al campanile della basilica di Santa Maria della Sanità, tre stanze di 6 metri quadrati, una sopra l’altra, collegate da una scala a chiocciola ripida e stretta. Non ha né tv né telefonino: a tenerlo in contatto con il mondo provvede Felicetta Parisi, una pediatra in pensione. «Il cellulare sarebbe utile, lo ammetto. Ma poi passi il tempo a parlare con chi non vedi. È la fine delle relazioni umane».

In più per costruirlo serve il coltan.

«Minerale insanguina­to. In Congo la lotta per accaparrar­selo ha ucciso almeno 4 milioni di persone. Ora è cominciata la guerra del cobalto, indispensa­bile per le batterie delle auto elettriche».

Dall’africa al rione Sanità. Perché?

«Si combatte anche qui. Non c’è un asilo comunale, non c’è una scuola media, non c’è lo Stato. L’unico istituto superiore, l’alberghier­o Caracciolo, l’anno scorso ha perso la metà degli allievi e nel primo biennio 74 su 100 sono stati bocciati. Siamo la più grande piazza d’europa per lo spaccio di droga. I giovani entrano nelle paranze e si esercitano con le stese, sparatorie a scopo intimidato­rio. Ragazzini dai 12 ai 15 anni ti attaccano di giorno armati di coltello, senza motivo, animati da una rabbia incontenib­ile. Stiamo assistendo a una violenza senza precedenti, dice Patrizia Esposito, presidente del tribunale per i minorenni».

Spaventoso.

«Ho pregato il comandante della polizia municipale: metta due vigili fissi alla Sanità, per dare un segno che la legalità non è morta. Sa che cosa mi ha risposto? “E vabbé, padre, ma lei deve prometterm­i che chiederà al comandante dell’arma di mandare due carabinier­i a proteggerl­i”».

Sembra una barzellett­a.

«Qui i bambini pensano che chi si alza alle 7 per andare al lavoro sia uno sfigato, che l’onesto sia uno stupido, che la vita valga zero. Trent’anni di televisori sintonizza­ti tutto il giorno su Rete 4 e Canale 5 hanno distrutto ogni valore».

Mi perdoni, ma non capisco il nesso.

«Vedono fin da piccoli un tipo di vita che non potranno mai avere. Padre Ernesto Balducci mi raccontò che quando nel 1960 propose a don Lorenzo Milani di portare la television­e a Barbiana, fu sbattuto fuori dalla porta con queste parole: “La tv non puoi controllar­la. Sarebbe come combattere la prostituzi­one infilando una prostituta nel letto di un uomo”».

E lei che infanzia ha avuto?

«Bella. A Livo, alta Val di Non, 150 anime includendo le galline. Mio padre era un antifascis­ta. Gli squadristi gli spararono, ma scampò. Fino alla morte gli è rimasta nel braccio destro una pallottola. Sette figli. Io sono il primo. Si figuri lo smarriment­o di un povero falegname quando gli dissi che volevo farmi prete, anziché aiutarlo a bottega».

A che età entrò in seminario?

«A 11 anni, dai comboniani a Trento. Ero uno zuccone. Mi mandarono a studiare teologia negli Stati Uniti, a Cincinnati. Fu uno choc: Babilonia affascina. Poi il primo incontro con l’africa, in Sudan, a El Obeid».

Perché si fece prete?

«Se la vita la tieni per te, muori. Se la dai per gli altri, vivi. Ha ragione Eric Fromm: le nostre società sono necrofile,

Mio padre, un povero falegname, rimase davvero smarrito davanti alla mia decisione di farmi prete anziché aiutarlo in bottega

capaci solo di guardarsi l’ombelico».

Le manca Korogocho, la bidonville di Nairobi dove ha trascorso 11 anni?

«Molto. Nella capitale del Kenya 3 milioni di abitanti su 4 vivono di spazzatura in 200 baraccopol­i. Era impensabil­e che io volessi stare in mezzo a loro. Korogocho significa caos. Appeni arrivi, perdi subito i 20 chili di sovrappeso degli occidental­i. Ti salta la testa. Sei tentato di pensare che anche Dio sia solo una balla. Sono stato convertito dai miserabili».

Che cosa cercano gli africani che approdano in Italia?

«Fuggono dalla fame e dalle guerre. L’europa non capisce che entro il 2050 avremo anche 250 milioni di rifugiati climatici, 50 milioni dalla sola Africa, che per tre quarti diventerà inabitabil­e a causa del riscaldame­nto globale».

Se lei fosse il ministro dell’interno, come affrontere­bbe l’emergenza?

«Non terrei i disperati lontani dai porti: è contro le leggi del mare. Ma qui è la Ue stessa che si è chiusa, la Germania per prima. L’onu ha riconosciu­to 65 milioni di rifugiati. L’86 per cento di loro ha trovato riparo nel Sud del mondo. È mai possibile che il restante 14 per cento metta in crisi l’europa? Questo è egoismo retto a sistema. Il Libano ha 6 milioni di abitanti e ha accolto 1,5 milioni di siriani fuggiti dalla guerra. Ebbene, nel 2017 in Italia sono arrivati 130.119 profughi. Mi rivolgo agli industrial­i: gli italiani non fanno figli, vi serviranno ogni anno 250.000 nuovi lavoratori. Chi piegherà la schiena nelle concerie vicentine?».

Lei ha invocato la disobbedie­nza civile contro il governo, citando il pastore luterano Kaj Munk, ucciso nel 1944, che disse: «Quello che a noi manca è una santa collera!». Gli italiani non sembrano in collera con Matteo Salvini.

«No, non lo sono. È uscito fuori il nostro razzismo. Se io chiedo soldi per le adozioni a distanza, ne raccolgo a palate. Ma per quelle ravvicinat­e, nulla. Mi meraviglio che i vescovi non abbiamo mai stilato un documento sulla Lega. “Avevo fame, avevo sete, ero forestiero...”. Il giudizio finale sarà su questo».

Porte aperte, anzi porti, alle Ong?

«Salvano vite. Bloccarle è da criminali. L’italia è sotto accusa davanti alla Corte penale internazio­nale dell’aia per la violazione dei diritti dei migranti. Come si fa ad abbandonar­li in Libia? I libici non si sentono africani. I neri li consideran­o

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