Così ci ha fatto conoscere una parte di noi stessi
Almeno sino a qualche tempo fa, scrittori come V. S. Naipaul e altri, alcuni dei quali anch’essi grandi, venivano definiti, per comodità classificatoria, «postcoloniali». Credo sia una definizione soprattutto oggi insostenibile e non solo perché non ci sono quasi più colonie e il colonialismo, ormai da tempo, si esercita in altri modi e in altre forme e non solo nei Paesi degli ex-imperi. Un grande scrittore come Naipaul è stato fra i primi a entrare concretamente in quella letteratura universale certo esistita da sempre, sul piano del valore, e celebrata già da Goethe e da altri ancor prima di lui, ma confinata, per quel che riguarda alcuni autori e alcune opere, nel Pantheon dei grandi capolavori e non entrata nella circolazione generale della lettura.
Naipaul — come il suo nemico, il grande Derek Walcott, il cinese Mo Yan e altri — fa parte della nostra formazione e della nostra percezione del mondo. E non certo per banali suggestioni esotiche o per obbligata retorica ideologica, che sforna quintali di drammoni politicamente corretti e nobilmente illuminati. Naipaul fa toccare con mano concretamente, con la sua narrativa, la complessità del mondo, l’incontro-scontro delle diversità umane, culturali, religiose, politiche; i paesaggi sensuali dei suoi luoghi d’origine e l’oscurità del cuore umano e delle civiltà.
Ci ha fatto conoscere dal vivo una parte del mondo e dunque di noi stessi. L’ho incontrato più volte e frequentato, abbiamo anche discusso pubblicamente di letteratura e politica, ma non posso dire di aver avuto con lui un rapporto personale profondo, forse per la sua scostante scontrosità. Ma non è detto che uno scrittore debba essere amabile.