Voglia di anni Cinquanta
Diplomazia Occorrono sforzi accorti per favorire la riconciliazione. Le milizie che si contendono il potere a Tripoli influenzano in via indiretta il governo di al Serraj
Eora eccoci a coltivare la più paradossale delle nostalgie, quella che in nome dell’innovazione politica ci sta portando indietro nel tempo, in un’italia anni Cinquanta.
È possibile che non sia passeggera la condizione di anarcooligarchia nella quale si trova la Libia, da ormai sette anni terra nelle mani di potentati armati e priva di legge applicata in modo uniforme sull’intero territorio. Vasto sei volte l’italia e abitato da poco più di sei milioni e mezzo di persone, questo Paese non era dotato di uno Stato vero e proprio neppure sotto il polso fermo della dittatura di Muhammar el Gheddafi. È possibile tuttavia che in questi mesi più fattori spingano verso una ridefinizione degli attuali equilibri, precari e incerti ma da qualche anno contraddistinti da un’instabilità tanto febbrile quanto ordinaria, al punto di determinare una forma di sua continuità dell’era postgheddafi.
Il generale Khalifa Haftar, che controlla la Cirenaica e si contrappone al Consiglio presidenziale guidato a Tripoli da Fayez al Sarraj, ha definito sabato «persona non gradita ai libici» l’ambasciatore d’italia Giuseppe Perrone. L’avvertimento ha preso a pretesto un’intervista nella quale il diplomatico osservava che sarebbe meglio convocare le prossime elezioni libiche dopo aver definito il quadro costituzionale dei futuri poteri nazionali, non prima. Haftar l’ha giudicata una «interferenza». Nel giudizio si intravede una divergenza con l’italia che non coinvolge soltanto lui e va oltre i limiti geografici del Maghreb.
È stata la conferenza internazionale del 29 maggio scorso a Parigi, voluta da Emmanuel Macron, a indicare come possibile data per le elezioni presidenziali e parlamentari in Libia il prossimo 10 dicembre. Quella riunione ha inquietato varie delle milizie attive in Tripolitania.
Nelle settimane scorse il governo italiano ha riservato ad Haftar segnali di attenzione: il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha affermato che ha intenzione di andarlo a trovare in Cirenaica, il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini si è detto disponibile a incontrarlo. Haftar è appoggiato da Egitto e Russia. Salvini è stato a Mosca e al Cairo. Per annunciare il futuro viaggio Moavero ha
Cirenaica
Il generale Haftar ha come sponda anche Parigi. Un suo successo ridurrebbe la nostra influenza
Contatti
parlato dal Cairo. Ma Haftar ha come sponda anche Parigi. E il governo di Giuseppe Conte, per non perdere influenza a vantaggio della Francia, prepara a novembre in Italia un’altra conferenza internazionale sulla Libia.
Il generale che un tempo lavorava per Gheddafi, come del resto Sarraj, può avere interesse a far votare presto i libici per tornare a Tripoli e dominarla sbarazzandosi del Consiglio presidenziale, sostenuto dall’onu e nato nel 2015 su spinta italiana. Che in molte zone del Paese manchi sicurezza dal suo punto di viuniti, sta conta poco. E non è detto che una Costituzione lo avvantaggerebbe. Un successo di Haftar permetterebbe alla Francia di ridurre l’influenza in Libia riguadagnata dall’italia almeno da quando Enrico Mattei, estraendo petrolio e pagandolo agli arabi più dei concorrenti occidentali, consolidò il nostro ruolo in Africa e Medio Oriente dopo la fine del colonialismo.
Nello sconsigliare elezioni secondo le indicazioni della conferenza di maggio, Salvini è stato non meno esplicito di Perrone: «Se a Parigi hanno fissato una data elettorale per dicembre senza sapere se a dicembre la Libia sarà pronta
Bisogna evitare l’errore che siano troppe voci diverse a trattare: la regia deve rimanere alla Farnesina
per votare, hanno fatto un passo troppo veloce dal nostro punto di vista», ha dichiarato.
Facile intuire qual è la principale posta in gioco. La Libia è il nono Paese al mondo per riserve di petrolio, il ventiduesimo per quelle di gas. I proventi del greggio vengono redistribuiti tra libici dalla banca centrale che fa capo a Tripoli. Insoddisfatto dalla quota riservata alla Cirenaica, Haftar in giugno ha bloccato quattro terminal petroliferi della Libia orientale, facendo crollare di oltre la metà la produzione nazionale. Pressioni di Stati Italia, Francia e Gran Bretagna lo hanno convinto a rinunciare al blocco, non all’ambizione di ottenere più danaro di quanto la sua regione ne riceve.
Occorrono sforzi accorti per favorire la riconciliazione tra i libici. Le quattro milizie che si contendono il potere a Tripoli influenzano in via indiretta l’embrione di governo guidato da al Serraj. Altre decine di bande armate, se non centinaia, controllano il resto del Paese. Con realismo, la comunità internazionale dovrebbe contribuire a isolare le fazioni più estreme e offrire ai potentati modi legali di procurarsi danaro in cambio di un disarmo delle milizie e di progressi nella riconciliazione nazionale.
È dannoso che Italia e Francia non riescano a definire una strategia comune. Motivo in più per misurare i passi. A cominciare dall’evitare un errore: non far trattare con i libici troppe voci a nome dell’italia.
A Tripoli sono stati finora Salvini, Moavero e la ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Si eviti di strafare: in Libia non sfugge che il governo Conte teme riprese degli sbarchi di migranti e profughi, diminuiti da quando l’ex titolare del Viminale Marco Minniti negoziò con tribù e milizie. Minniti ottenne risultati grazie alla sua esperienza di ex autorità delegata sui servizi segreti. Adesso è il caso che la regia rimanga alla Farnesina e che le voci italiane non siano dissonanti. Altrimenti qualcuno avrà più servizi nei telegiornali. Ma a Tripoli il prezzo della collaborazione salirà.