Corriere della Sera

DINO MENEGHIN

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Io equiparere­i l’educazione fisica a lettere e matematica: aiuterebbe a combattere fenomeni come l’obesità infantile e il bullismo».

Chi sono gli italiani migliori, nella sua «hit parade»?

«Quelli che hanno avuto l’idea dell’italia e si sono battuti per unirla: quindi i Mazzini, i Cavour, i Garibaldi».

C’è una ricetta vera per l’europa?

«Pensavo a qualcosa di più coinvolgen­te, ma abbiamo solo la moneta e la libera circolazio­ne. Il costo della vita è aumentato: l’euro avrà salvato l’italia dal crac, ma ha messo tanti in ginocchio. Non abbiamo un esercito unico e non avremo mai una lingua comune. La bandiera non ha lo stesso valore di quella degli Usa, è un di più a fianco di quelle nazionali. Un’europa diversa l’avremo forse tra un secolo».

La Nba ha aperto le porte a cestisti di tutto il mondo, nel basket girano sempre più soldi: le dispiace di essere nato nell’era sbagliata?

«Sì, con tutto il rispetto per la mia carriera. Lo dicevo a papà: se mi avesse concepito 20 anni dopo avrei “surfato” su un’onda di dollari».

Da juventino, avrebbe ingaggiato Cristiano Ronaldo?

«D’acchito dico di sì».

Ma tutti quei quattrini...

«Il calcio è uno sport profession­istico e gli investimen­ti sono il suo motore. Certe operazioni muovono un indotto, generando ritorni e occupazion­e».

Gli operai di Melfi e Mirafiori eccepiscon­o.

«Dal loro punto di vista hanno ragione a incavolars­i, ma si rischia di mescolare le pere con le mele: i loro problemi vanno risolti a prescinder­e da Ronaldo e dal suo ingaggio».

La Tv continuerà a drenare spettatori dagli impianti?

«Il rischio esiste. Sono sempre più probabili scenari alla Fantozzi: partita in tv, pizza, birra gelata e rutto libero. Ma spero che le nuove generazion­i siano educate da papà che insegnano il piacere di seguire dal vivo una partita».

Telefonini, tablet, pc: Meneghin, uomo degli anni 50, è in sintonia con la tecnologia?

«I telefonini sono di una comodità unica, ma i termini tecnici mi spiazzano. Eppure la tecnologia, a giuste dosi, è utile».

I tifosi urlavano «Dino, picchia!»: Meneghin ne ha prese o ne ha date di più?

«Bilancio pari. Picchiavo — intendo duri Chi è

● Dino Meneghin, considerat­o il più grande cestista italiano di tutti i tempi, è nato ad Alano di Piave (Belluno) il 18 gennaio 1950

● Ha giocato con Varese, Milano e Trieste, vincendo 12 scudetti, 7 coppe dei Campioni, 2 coppe delle Coppe. Con la Nazionale ha vinto l’europeo nel 1983 e l’argento alle Olimpiadi di Mosca del 1980

● Appese le scarpe al chiodo è stato commissari­o straordina­rio (dal 2008) e poi presidente (dal 2009 fino al gennaio 2013) della Federazion­e Italiana Pallacanes­tro contatti fisici — solo se ero stuzzicato. Dovevo spiegare che non avevo paura: altrimenti contro certi “cristoni” non avrei avuto scampo».

Nello sport bisogna essere sempre leali o si può essere un po’ cattivi?

«Occorre essere solo leali, altrimenti tutto va a catafascio».

Se potesse cambiare qualcosa, che cosa non farebbe più?

«Non rinuncerei alla Summer League, anticamera della Nba: mi sarei misurato con la chance di entrare nel basket “pro”. Vorrei anche cancellare, rigiocando­la, la finale di Coppa dei Campioni 1983 a Grenoble. Perdemmo contro Cantù, fu la mia partita più brutta. Era il primo anno con Milano dopo 10 finali europee consecutiv­e con Varese: all’olimpia si aspettavan­o fossi una guida, ma... sbagliai strada”.

Che cosa avrebbe fatto Meneghin se non fosse stato cestista?

«L’architetto. Mi ero iscritto, ma era il periodo della contestazi­one: partivo alle 6 da Varese, però spesso le lezioni saltavano. Io dovevo poi tornare a casa e andare ad allenarmi: dopo un po’ mi sono scocciato e ho mollato».

Moshe Dayan l’avrebbe arruolata nel suo esercito.

«Anche no, grazie...».

Ma per lui e per gli israeliani lei era il Guerriero con la «g» maiuscola.

«Metaforica­mente, però. Ho avuto il piacere di conoscere Dayan, credo pensasse al cestista-guerriero, non al soldato».

A Varese, nella Ignis, avete vinto tutto perché in quella squadra c’era lo spirito dei personaggi del film «Amici miei».

«Vero. Pure a Milano ho trovato un’atmosfera simile. Si viveva insieme, l’invidia stava a zero: a fine partita, nessuno controllav­a il proprio scout, l’importante era aver vinto».

All’olimpia ha vissuto gli anni della «Milano da bere».

«E ce la siamo bevuta... Ci ha aiutato: il basket è sempre stato importante per la città, ma in quel periodo siamo diventati una moda e abbiamo intercetta­to il pubblico del calcio».

Dino Meneghin avanza qualche segreto da raccontare?

«Dopo 50 anni in mezzo ai giornalist­i, ne sapete più voi. Non ho nulla di speciale da svelare, ma nemmeno scheletri da nascondere».

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