IL RISCHIO DI TORNARE A UN PAESE IN BIANCO E NERO
Abbiamo dunque già smesso di tubare con il futuro? Fino a ieri, quello in arrivo, sospinto dagli oltre 3 quintilioni di byte informativi al giorno che tanto ci agitano, sembrava il migliore dei mondi possibili. Migliore — così si è detto — perfino della diseguale società liberale e della ormai vetusta democrazia rappresentativa. Ora, invece, eccoci a coltivare la più paradossale delle nostalgie, quella che in nome dell’innovazione politica ci sta portando indietro nel tempo, in un’italia anni Cinquanta. Ma attenzione: non l’italia in cui si agitavano spiriti inquieti come Pasolini, che spaventati da una modernità a una dimensione lamentavano la scomparsa delle lucciole in città; o come Corrado Alvaro, che a sferzare il carattere nazionale coniava il termine «mammismo». E neanche l’italia cinematografica del neorealismo che delineava l’uomo nuovo, positivo; o della commedia all’italiana che invece sfotteva quello ridicolo e negativo. Magari! L’italia anni Cinquanta nella quale gli innovatori ci stanno precipitando con le loro proposte di ripristino della leva obbligatoria e di controriforma in materia di diritti civili; con le loro certezze sui rischi delle vaccinazioni e sul salvifico ritorno ad una moneta nazionale; e con i loro contraddittori stop e go su Tav, Tap e Ilva, è semmai un’altra. In chiave banalmente polemica, si potrebbe dire che è l’italia dei treni accelerati, della poliomielite come minaccia quotidiana, della Rai controllata e autocensurata, o dei gavettoni in caserma quando invece, visti i tempi e gli scenari, ci sarebbe bisogno di pochi militari e altamente qualificati. Ma al di là di ogni banalizzazione, il rischio vero è quello di un ritorno a una anacronistica Italia in bianco e nero. A uno Stato «pigliatutto», pedagogico sugli stili di vita, deciso sulle innovazioni annunciate, ma lento e confuso su quali, come, e quando realizzarle.