Corriere della Sera

I COSTI PER I CETI DEBOLI DI UN’USCITA DALL’EURO

- di Roberto Sommella

La nostalgia della lira non è nuova e ha due testimonia­l storici. Silvio Berlusconi, nel 2002, parlando con il Corriere, ammise che avrebbe sempre rimpianto la valuta così tanto accumulata. Forse anche per questo fece spedire a tutti l’euroconver­titore. Antonio Fazio, da governator­e della Banca d’italia, ammonì invece che la moneta unica sarebbe stata un purgatorio. Gli italiani comuni erano divisi: il 52% temeva che l’euro avrebbe portato qualche problema, mentre il 22% credeva sarebbero stati di più i vantaggi. Nessuno previde che a distanza di 16 anni ancora un italiano su quattro avrebbe rivoluto indietro le banconote di Caravaggio. È arrivato il momento di prendere atto che non si tratta di un’allucinazi­one.

Da una parte, è vero che chi rimpiange la lira dovrebbe fare un esercizio di memoria. Tra il 1954 e il 1994 il rapporto debito/pil è salito dal 20 al 120%, solo la legge sui baby pensionati è costata alle casse pubbliche 150 miliardi di euro di debito in più. Svalutazio­ni e crisi petrolifer­e costrinser­o l’italia persino a chiedere negli anni settanta alla Germania un prestito, garantito dall’oro della Banca d’italia. Giorgio Ambrosoli, esemplare servitore dello Stato, fu ucciso perché curatore fallimenta­re della banca del presunto salvatore della lira, Michele Sindona. Anni di piombo, insomma, anche per la finanza.

Di converso, bisogna ammettere che un problema c’è e si potrebbe sintetizza­re con il fatto che l’italia emette debito in una moneta che non controlla più, ma che certo non può coniare di nuovo. Senza voler riaprire vecchie ferite come ad esempio il tasso di cambio svantaggio­so (1.936,27 lire per un euro, prontament­e portato in alcuni casi a 2.000 lire) e frutto di un regime fisso legato agli ultimi anni di Ecu, che premiava

il marco, qualche calcolo di quelli che si fanno al mercato e non nelle accademie si può fare. Una ricognizio­ne su cento prodotti e servizi, fotografat­i nel 2001 e rivalutati al 2016, mostrano un andamento dei prezzi a due facce. Se alcuni beni, dal compact disc al burro hanno fatto registrare sensibili riduzioni anche del 25%, altri generi di largo consumo, tolta l’inflazione, sono diventati molto più cari.

Una pizza margherita è aumentata del 98%, un chilo di pasta integrale è salito del 79%, un chilo di fettine di vitello del 69%. Persino il tramezzino, lo spuntino per eccellenza, costava solo 1.500 lire ed oggi lo si trova in media a 2,10 euro. Il doppio. Non si vivrà di solo pane, ma milioni di italiani quello si possono permettere. Se rimpiangon­o la lira non è quindi perché hanno visto un cigno nero, come direbbe il ministro Paolo Savona: per mancati controlli nel periodo di doppia circolazio­ne, arrotondam­enti

preventivi, assenza di sostegni alla perdita di potere d’acquisto, con l’euro si sono davvero impoveriti. Questo non significa che è tutto da rifare.

L’ingresso nella moneta unica per l’italia resta un successo, anche perché ha reciso il canale più diretto di finanziame­nto pubblico di ogni tipo di sprechi, ma non ha ridotto le disuguagli­anze. Un esempio su tutti. Molti previdero il boom immobiliar­e grazie alla riduzione del costo dei mutui per via dell’abbassamen­to dei tassi, moltissimi furono però colpiti dal raddoppio dei prezzi delle case e degli affitti, frutto della corsa al mattone. Se le rendite sono aumentate dal 2002 ad oggi, grazie all’aumento delle possibilit­à di investimen­to, i redditi da lavoro dipendente sono rimasti quasi al palo, tanto che quelli pro capite sono addirittur­a fermi ai valori del 1999. Una bella fetta del nostro Paese è così rimasto indietro rispetto al resto d’europa. Mentre in dieci anni i poveri sono raddoppiat­i, solo negli ultimi dodici mesi coloro che in Italia hanno un patrimonio superiore al milione sono cresciuti quasi del 10%. Uno spread sociale enorme. Ecco perché in molti sono tentati dalla vecchia moneta, come se fosse possibile tornare più giovani, stampare valuta, ricelebrar­e il matrimonio tra Tesoro e Banca d’italia, riavere le chiavi della cassa. E lasciare il purgatorio per tornare al paradiso della lira (e del debito) fai da te.

Serve a poco spiegare che tra svalutazio­ne, aumento delle materie prime, ridenomina­zione del debito pubblico e chiusure dei pagamenti, l’abbandono della valuta europea danneggere­bbe proprio i ceti più deboli. Sono argomenti tecnici, il problema è la busta della spesa. Snobbare questo disagio come se fosse una follia collettiva è una fuga dalla realtà che incrementa la rabbia nel Paese e fa il gioco degli euroscetti­ci.

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