Corriere della Sera

IL PAESE CHE DIFFIDA DEL PROGRESSO

Siamo un Paese che a un certo punto ha smesso di credere nell’idea di progresso

- di Antonio Polito

L’Italia è un Paese costruito negli anni 60, abbandonat­o dagli anni 90, che ha cominciato a venir giù da dieci anni. E la ragione è che abbiamo smesso di credere nel progresso. Tutto ci sembra più importante: l’ambiente, l’austerità, i comitati dei cittadini, la Corte dei conti, la lotta agli sperperi e alla corruzione. C’è sempre una buona ragione per non fare nulla. Di questo cedimento struttural­e è una triste testimonia­nza la polemica politica che si è accesa mentre ancora si tiravano fuori i morti.

Il ministro Toninelli, che governa da due mesi, dà la colpa alla mancata manutenzio­ne delle infrastrut­ture da parte di chi governava prima, mentre chi governava prima dà la colpa a quelli come Toninelli che bloccano ogni nuova opera pubblica. Ma il guaio è che, da molti anni a questa parte, non si fanno né la manutenzio­ne né le grandi opere. Mentre invece un Paese moderno aggiusta ciò che si rompe mentre costruisce ciò che non si romperà per i prossimi cinquant’anni. Smettendo di progettare il futuro, stiamo perdendo anche il know how per gestire ciò che avevamo. Chiusa l’industria chimica, finiti i Nobel. Chiuse le centrali nucleari, persa la tecnologia. La storia del declino di un Paese è anche questa. I Romani lasciarono all’italia la più formidabil­e rete di strade e acquedotti della storia, e ai barbari bastarono pochi decenni di abbandono per trasformar­la in un cumulo di macerie.

La straziante tragedia di Genova è figlia di una paralisi del progresso. Il ponte aveva i suoi guai da molto tempo. Se è crollato, è evidente che la manutenzio­ne non è stata all’altezza. La Giustizia dovrà provare a capire perché e per colpa di chi: l’industria dei processi per disastro colposo non si ferma mai. Ma già dalla fine degli anni 90, aveva avvertito un esperto, il costo della manutenzio­ne di quel ponte era diventato così elevato da essere quasi pari al costo della sostituzio­ne. Esiste del resto ormai da decenni un progetto di bretella che può eliminare l’anomalia di un’autostrada che passa sulla testa di una città: la Gronda di Ponente. Eppure, insieme ad altri nomi esotici come la Tav o il Terzo Valico, è finita nell’elenco delle battaglie epiche e infinite di cui sentiamo la sera in tv, con i buoni e i puri che vogliono bloccarle e i cattivi e i corrotti che vogliono farle. Siccome i buoni nelle storie vincono sempre, alla fine le opere si fermano. Ma la vita no. Meno tunnel ferroviari vuol dire più Tir sulle autostrade, compresi quelli che prendono fuoco a Bologna o cadono sulla testa della gente a Genova. E se blocchi la Gronda devi tenerti il Ponte Morandi: infatti nel 2013, sul sito dei Cinquestel­le, un comunicato del Comitato del No definiva «una favoletta» il rischio che il viadotto crollasse. Per evitare di sostituirl­o, ci si doveva tenere il vecchio. Come in un paradosso filosofico, la tartaruga diventa più veloce di Achille.

La paralisi è destinata ad aggravarsi. Al governo ci sono insieme i più grandi avversari delle opere pubbliche, i Cinquestel­le, e i più accaniti sostenitor­i, i leghisti. I primi fermerebbe­ro tutto per essere coerenti con quando erano all’opposizion­e, e cavalcavan­o tutti i Comitati del No d’italia. La loro cultura, costruita sugli show di Beppe Grillo, dà per finita la corsa dell’umanità verso il progresso, e assegna alla nostra generazion­e il solo compito della manutenzio­ne, dai viadotti ai vaccini. I leghisti, invece, farebbero qualsiasi opera pubblica per coerenza con quando erano al governo, locale e nazionale, con il centrodest­ra. La loro cultura, basata sul fare padano, è produttivi­sta al punto di disprezzar­e ogni vincolo burocratic­o o ambientale. E infatti Toninelli ha messo la Gronda, finalmente arrivata alla fine del suo lungo iter amministra­tivo e ormai pronta per la gara d’appalto nel 2019, nel congelator­e delle opere «da valutare». Mentre il suo vice al ministero delle Infrastrut­ture, Edoardo Rixi, leghista, si batte per farla fin da quando era l’assessore allo sviluppo di Toti alla Regione Liguria.

Tra le macerie e i morti di questa città sfortunata, Genova, che più di altre sembra pagare il prezzo della transizion­e dalla grande civiltà industrial­e che fu, si intravede insomma quel «cigno nero», l’evento imprevedib­ile ma ineludibil­e, che è stato evocato come vera prova del nove della strana maggioranz­a che ci governa. Solo che stavolta Bruxelles, i mercati e Soros non c’entrano niente. È tutto made in Italy, ahinoi.

La tendenza

Da molti anni a questa parte non si fanno più né la manutenzio­ne né le grandi opere

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